Rappresentazione: argomento e complessa questione che attraversa il pensiero occidentale. Le interrogazioni che sollecita e i problemi che apre vengono a comporre un cospicuo ambito concettuale, assai ben riconoscibile e – dirò così – costantemente preso in considerazione, si voglia in rapporto a questioni di gnoseologia, o di estetica o di morale. Tale richiamo per significare l’ingenza, la straordinaria rilevanza e la portata del rappresentare (ovvero quella che ben si è assunta, in epoca moderna – ricordo qui solo i capitali nomi di Leibniz e di Schopenhauer – come la effettiva incidenza della rappresentazione nel determinare un mondo). E massime quando si ragioni del rappresentare, un connotato che interviene nella qualunque elaborazione che metta capo a una quale che sia idea di libertà (singolare e plurale), ma, ancor più, al rappresentare che svolge una sua parte attiva e determinante dentro ogni storicamente determinata relazione sociale.

Chiedo venia al lettore per l’incedere professorale di queste righe (al lettore che, spazientito, avrà probabilmente già smesso di leggerle), ma si assiste – desolante giornaliera constatazione – all’impiego (orale e scritto) di termini (come nel caso di rappresentazione) che imporrebbero una responsabilità in chi li usa, che vorrebbero essere impiegati con cognizione di causa e da chi sia in un, almeno rudimentale, possesso del loro significato.

Nel contesto politico, oggi, in Italia, parole e proposizioni sono troppo spesso pronunciate e formulate da esponenti (parlamentari, amministratori, commentatori) che mostrano di possedere una debole cognizione dei termini che impiegano e delle affermazioni che imbastiscono. È legittimo il sospetto che la più parte ignori il significato e, ancor più, le responsabilità che l’esser consapevoli di quel significato comporterebbe. Del resto, viviamo nella vacua – insignificante orpello ad uso commerciale – cultura del Made in Italy, esaltata dal ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (ininterrottamente in carica dal 2014), dove, tra molte altre consimili mestizie, un pensiero di Kant è utilizzato come candida suggestione scelta per conferire una patina nobilitante (una certificata ‘superiorità’ etica?) ad una nota ‘firma’ che confeziona abbigliamenti in cachemire.

È questa diffusa insignificanza culturale, l’impoverimento fino alla privazione di senso della gran parte delle parole e delle affermazioni che si ascoltano e si leggono tuttodì, che mi ha spinto a mettere sull’avviso il lettore sulla caratura concettuale – ardua ed elevata – che non va immeschinita quando si fa ricorso al termine rappresentazione. Perché è mia intenzione attenermi ad esso tracciando qui una rapida riflessione sulla rappresentazione di sè che la cultura politica italiana offre, e su come si presenta chi si candida al governo del paese in questa fase storica di collasso ecologico, di pandemia, di guerra, di estrema difficoltà economica, energetica, sociale, ecc.

La rappresentazione è un carattere essenziale, non esornativo o aggiunto, del potere (politico, religioso, statuale). In queste settimane di campagna elettorale il potere si è rappresentato nelle forme (politiche?) della intervista, della breve dichiarazione (il ‘cinguettìo’), della rapida apparizione sulla scena televisiva. Piccole performance una via l’altra, ove parola e immagine si aggregano non in un ragionamento, ma in un personaggio omologato: tanto questo che quello. Dunque: dalla politica alla televisione e ai social. La politica si dà in forma di notizia, di avviso, di giornalata. Il concetto di rappresentazione, come ognun sa, attiene anche allo spettacolo, a quel ‘qui presente davanti a me’ che è una delle accezioni della ratio teatrale.

Il teatro di Varietà si chiudeva con una «Passerella finale». La politica oggi si presenta (si rappresenta) come una «Passerella iniziale». Un «cominci lo spettacolo» che si ferma lì. Non segue alcuna interpretazione, non c’è un testo da agire. Ci sono personaggi in attesa di un ruolo che reciteranno, ahinoi, sull’onda di fatti che non sanno interpretare, controllare. Quell’esser sospinti lo chiamano governare.