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Rappresaglia e vittimismo, identikit degli uomini violenti

Rappresaglia e vittimismo, identikit degli uomini violentiFirenze, donne in piazza contro la violenza maschile – Aleandro Biagianti

Centri per uomini autori di violenza Parlano Pietro Demurtas e Caterina Peroni, del progetto Viva. Un monitoraggio dei servizi di contrasto alla violenza realizzato in collaborazione con il Cnr e il Dipartimento per le pari opportunità

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 25 novembre 2023

Tra i servizi di contrasto della violenza di genere in Italia ci sono anche i poco noti Cuav, centri per uomini autori di violenza. Realtà che in Italia hanno preso piede solo nei primi anni duemila ma che hanno una storia più stratificata nel panorama internazionale. Abbiamo parlato con Pietro Demurtas e Caterina Peroni, del progetto di ricerca Viva, realizzato nell’ambito della collaborazione tra il Cnr e il Dipartimento per le pari opportunità, impegnati nel monitoraggio dei servizi e delle attività di prevenzione alla violenza maschile.

Che tipo di centri esistono attualmente sul territorio?
I Cuav sono struttura che trattano uomini abusanti, indirizzandoli verso percorsi di responsabilizzazione. Ce ne sono di vari tipi e si differenziano a partire dalla genesi. Il primo a vedere la luce nel 2009 è il Cam (Centro Uomini Maltrattanti) di Firenze, che nasce nell’ambito dell’associazionismo privato. Su questa stessa impronta ne sono sorti diversi negli anni successivi. Un secondo gruppo sono quelli legati al CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) di Milano che lavorano a stretto contatto con il sistema giudiziari. Un terzo filone è costituito da quelli pubblici come quelli della rete e LDV (Liberiamoci della violenza) dell’Emilia Romagna, inseriti nei consultori del sistema sanitario pubblico. Questa pluralità di esperienze dal 2014 si è organizzate in una rete nazionale, Relive, cercando di armonizzare le pratiche alla luce degli standard internazionali fissati anche dalla Convenzione di Istanbul. Anche gli approcci metodologici possono differire ampiamente: criminologico, psico-socio educativo, psicoterapeutico, gender-based.

Quello dei Cuav è un trend in crescita?
La nostra prima indagine risale al 2017, la seconda è quella fatta sui dati del 2022. In questi cinque anni queste realtà hanno subito una crescita significativa. Le sedi principali sono passate da 54 a 69, ma considerando anche le sedi secondarie sono passate da 69 a 141. La concentrazione maggiore è nel nord del paese, ma gli ultimi anni si è registrato un incremento anche nel meridione. La maggior parte sono realtà del privato sociale, le strutture pubbliche sono la minoranza. Proprio per questo è stata importante l’intesa Stato regioni per definire i criteri che queste strutture devono fornire per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Un processo che, nonostante le critiche sollevate da alcuni centri antiviolenza, rappresenta uno sbarramento alle esperienze non specializzate

Come funziona il sistema dei finanziamenti?
Al 60% si tratta di finanziamento pubblico diretto, nazionali o locali, il resto viene trovato tramite altri canali, donazioni, pagamento da parte degli utenti e partecipazione a bandi di altro tipo. Storicamente i soldi pubblici dedicati a questi spazi sono stati pochi, rendendo difficile a volte garantire la continuità dei progetti. Tuttavia dal 2020 in poi il fondo per le Pari Opportunità è stato incrementato di un milione di euro proprio per il finanziamento di queste strutture.

Attraverso quali canali gli uomini maltrattanti arrivano in questi centri?
Nel 2022 c’erano 4174 uomini in carico alle strutture. Erano 1214 nel 2017. Uno dei canali principali è quello processuale. Con la legge 119 del 2013 se gli imputati per reati di violenza di domestica decidono di rivolgersi a queste strutture il giudice può tenerne conto nella valutazione delle misure restrittive, un aspetto che stato considerato problematico dai centri antiviolenza. Molto spesso quindi sono gli avvocati a spingere i loro clienti e chiedere aiuto. Dal 2019, con il Codice Rosso è previsto che la partecipazione a questi programmi sia obbligatoria per chi riceve la sospensione condizionale della pena. Gli uomini che entrano volontariamente in questi centri sono invece una minoranza, circa il 10% dei totali e molto spesso di tratta di ingressi cosiddetti “spintanei”, cioè di persone spinte a entrare dalle pressioni delle loro reti familiari e affettive. Per questo, anche alla luce dei fatti più recenti, ribadiamo che è molto importante sensibilizzare sui campanelli d’allarme. Bisogna restare vigili sulle situazioni a rischio anche di persone vicine.

Quali sono le criticità più forti di queste esperienze?
Il tema di fondo è che questi centri non possono essere scollegati dagli altri servizi territoriali. Forniamo un esempio: l’uomo preso in carico potrebbe manipolare la compagna rispetto all’andamento del percorso oppure mentire deliberatamente agli operatori. È necessario quindi che le fonti di informazione sul suo comportamento siano diverse, in modo che gli operatori possano verificare la sua versione e garantire maggiore sicurezza alle (ex)partner). Il percorso di uscita di violenza della donna è, e deve restare, l’obiettivo centrale di tutta l’attività di prevenzione. Serve una cooperazione attiva tra tutti i servizi territoriali, servizi sociali, scuole, forze dell’ordine, Cuav e centri antiviolenza per mettere al centro la liberazione delle donne dalla violenza. E poi serve la formazione degli operatori, non solo quelli dei centri, ma di tutte le agenzie che si interfacciano con abusi e violenze di questo tipo.

Ci sono delle caratteristiche che accomunano gli uomini che attraversano queste strutture?
La violenza maschile si conferma un fenomeno trasversale, per età, ceto sociale, livello di istruzione, provenienza geografica. Ciò che accomuna questi uomini è la relazione con la vittima. Cosa qualifica questa relazione? Volontà di potere e controllo da un lato e dall’altra parte una spinta verso la libertà e l’autonomia. I femminicidi sono spesso degli atti di rappresaglia verso al libertà delle donne. L’altra cosa che ricorre spesso in questi uomini è che sono “accentratori di cura”: non sono in grado di vedere il disagio della partner e si rappresentano come vittime (“sono disperato” “voglio uccidermi” “non riesco a sopportare”). Il primo passo che si tenta di fare nei percorsi è proprio quello di favorire la responsabilizzazione e la consapevolezza che la violenza è sempre una scelta.

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