Rapporti di forza, la Germania prima della classe
Se lo possono permettere e dunque se lo permettono. C’è poco da aggiungere all’annuncio del cancelliere Scholz di voler stanziare 200 miliardi di euro per abbattere il vertiginoso aumento dei costi energetici.
Per le imprese e i cittadini tedeschi seguito all’invasione russa dell’Ucraina e al blocco delle linee di approvvigionamento. «Siamo grandi e grandi sono le risorse necessarie», taglia corto il ministro dell’economia Lindner.
Del resto nei trattati e nelle regole dell’Unione non vi è strumento che possa contrastare questa decisione, né rimuovere, neanche tendenzialmente, la storica asimmetria delle economie europee. Inutile mugugnare sul fatto che la Repubblica federale, avendo guadagnato più di ogni altro dal mercato comune, dovrebbe cortesemente restituire il favore. Per non parlare dell’accusa rivolta a Berlino di aver trascinato l’Europa in una eccessiva dipendenza (che faceva comodo a tutti) dalle comode fonti energetiche russe.
L’Unione europea, nella sua evanescenza politica, è uno spazio determinato da rapporti di forze non solo tra stati, ma anche e soprattutto tra forze economiche e finanziarie che attraversano senza alcun problema i confini di nazioni in competizione tra loro per ospitarle e favorirle. Quanto ai dogmi economico-politici come il famigerato “zero nero” (nessuna spesa a debito) valgono fino a dove il processo di accumulazione non ne risente. Bruxelles si mostra dunque disponibile ad accantonare il divieto degli aiuti di stato a favore delle imprese in difficoltà con evidente vantaggio per quelle dei paesi, come la Germania, che hanno maggiori capacità finanziarie.
Questa volta i “compiti a casa”, ben diversi da quelli imposti a suo tempo alla Grecia, sono eseguiti ben volentieri dai primi della classe.
Berlino insiste sulla assoluta diversità tra la crisi pandemica e quella energetica per negare la possibilità di usare gli stessi strumenti, come il fondo di debito comune del programma “Sure”. Distinzione alquanto pretestuosa se si guarda alle dinamiche recessive, al blocco di interi rami di attività, alla contrazione dei consumi e alla disoccupazione comuni a entrambe le crisi. Diciamo piuttosto che il coronavirus, anche nella percezione sociale, si è comportato in modo più egualitario e “naturale” dei combustibili fossili, il cui prezzo, oltre che da una escalation bellica fuori controllo, che non contempla più neanche la possibilità astratta di un negoziato di pace, è determinato da scelte politiche e da importanti fattori speculativi che non sono eccezione ma norma su un mercato del tutto artefatto. E riguarda strutture produttive e infrastrutture non solo asimmetriche, ma anche diversificate. Se la pandemia influiva relativamente sulla futura competitività di imprese e sistemi d’impresa, così non sarà quanto al modo in cui si uscirà (quando e se si uscirà) dalla crisi energetica. Senza contare il fatto che la pandemia è stata (e continua ad essere, sebbene in ombra) una catastrofe davvero globale (come la dimenticata mutazione climatica), mentre la crisi energetica colpisce soprattutto, e in proporzioni diseguali, l’Europa, dove scavalca tutti gli ordini di priorità.
Ecco perché la solidarietà europea si ritrae mettendo in luce un evidente schema di interessi confliggenti che ostacolano non solo l’istituzione del famoso tetto sul prezzo del gas, ma più in generale qualsiasi strategia di risposta comune alla crisi. Mascherata dall’unanime e indiscusso sostegno a Kiev, che si muove ormai nella prospettiva senza soluzione della “guerra totale”, l’Unione patisce una frammentazione estrema. Arginata solo da quelle interdipendenze delle filiere produttive e degli scambi commerciali che rendono insostituibile lo spazio economico europeo, ma che si danno comunque in forma gerarchica e diseguale.
Questa mescolanza di interdipendenza e attrito tra interessi nazionali costituisce la cifra ambigua dell’espansione elettorale delle destre europee, dalla Svezia alla Francia, all’Italia. Dove la rinuncia ad avventure isolazioniste, pur senza dismettere la retorica patriottica, si combina con una chiamata in causa dell’Europa per la soluzione di problemi nazionali. I timori alimentati da una contingenza ormai decisamente stagnante o recessiva e da una sostanziale incertezza sui futuri sviluppi della crisi hanno indotto a rivolgersi a una difesa dell’interesse nazionale tutta interna all’ordine liberista europeo e alla sua matrice classista. Laddove nazionalismo significa, quasi esclusivamente (e classicamente), la cancellazione delle fratture e delle linee di conflitto che attraversano, in ogni paese, la società e i suoi immensi squilibri. Ovverosia l’unico spettro che ancora si aggira, seppure molto timidamente, per l’Europa.
Le destre europee hanno capito di poter offrire alle strettoie del processo di accumulazione i propri servigi d’ordine e hanno colto l’occasione. Dall’altra parte, i cultori draghiani della responsabilità non hanno capito che il sistema stesso del neoliberismo e delle sue forme postpolitiche, per tenersi in piedi richiedeva il massimo dell’irresponsabilità. A voler essere responsabili conveniva piuttosto contrastarlo.
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