Ad al-Mawasi si viveva di pesca. Una piccola striscia nella Striscia, lungo il mare, abitata da comunità beduine palestinesi, che dal deserto riuscivano a ricavare spazi da coltivare. Da mesi è sfigurata. È diventata una tendopoli, ultimo rifugio per gli sfollati in fuga da Rafah e Khan Younis, dopo che l’esercito israeliano l’ha designata come «zona sicura». Presunta, perché al-Mawasi non è stata risparmiata dalle bombe.

L’ULTIMO ATTACCO è di ieri, un assalto coordinato via terra, aria e mare, scrive l’agenzia palestinese Wafa. Israele nega. Nelle stesse ore veniva colpita Rafah, la sua zona occidentale, quella che guarda al mare, a dimostrazione che la città è ormai circondata: «C’è stato un fuoco intenso dai caccia – raccontano testimoni all’Afp – Apache e quadricotteri, oltre all’artiglieria e alle navi da guerra colpiscono la zona ovest di Rafah».

E mentre sui social diventava virale il post di una soldata, cittadina statunitense, che si è fotografata di fronte a una moschea vandalizzata in città, scontri nelle strade tra militari israeliani e combattenti di Hamas si sono registrati nella zona sud di Rafah. Lì stazionano i carri armati, che tengono chiuso il valico salva-vita dal 6 maggio. Significa che a Gaza non entrano aiuti umanitari, eccetto pochi camion dell’Onu con materiale sanitario.

E poi Nuseirat, ancora alle prese con gli effetti terribili dell’operazione israeliana dello scorso sabato: cinque uccisi ieri. Un’altra vittima al porto di Gaza city, con il bilancio che sale a 37.232 palestinesi uccisi dal 7 ottobre (a cui si aggiungono almeno 10mila dispersi mai trovati).

SULLO SFONDO resta il negoziato infinito sulla proposta del presidente Biden. Il rimpallo è continuo, tra Tel Aviv, Washington e la leadership di Hamas, con versioni discordanti e nessuna certezza. Il movimento islamico insiste a dire che i commenti che ha inviato non sono emendamenti, perché conterrebbero le stesse richieste di sempre: il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. La differenza con la proposta Biden sta nelle tempistiche: nella seconda fase dell’accordo, dice la Casa bianca, nella prima fase, dice Hamas.

In ogni caso tutto dipende da Israele che il ritiro non lo contempla nemmeno. Secondo il Times of Israel, inoltre, Hamas chiede al governo israeliano garanzie sul cessate il fuoco permanente, nella convinzione che il primo ministro Netanyahu ricominci l’offensiva una volta riportati a casa gli ostaggi. Anche su questo, il premier è chiaro: la guerra non finirà.

NON FINISCE nemmeno quella contro le Nazioni unite. Ieri l’ambasciatore israeliano al Palazzo di Vetro, il falco Gilad Erdan, ha minacciato di «espellere dal paese i funzionari di alto livello dell’Onu». E di auto-espellersi: «Per Israele è venuto il tempo di considerare i pro e i contro di ritirarsi dall’Onu».

A disturbarlo sono le prese di posizione del segretario generale Guterres, di cui di nuovo ieri Erdan ha chiesto la testa, e i rapporti disturbanti delle agenzie Onu. L’ultimo è di ieri, pubblicato dalla Fao: il 57% delle terre agricole di Gaza è distrutto, dicono le immagini satellitari, a causa di «spianamenti, passaggio di veicoli militari e bombardamenti».