«Sono passate 24 ore dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede un immediato cessate il fuoco durante il mese di Ramadan e quello che vediamo sul terreno è l’esatto opposto di quello che domanda la risoluzione». Così ieri Hani Mahmoud, corrispondente di al Jazeera da Rafah, descriveva l’escalation di attacchi sulla città all’estremo sud di Gaza, rifugio oggi a 1,5 milioni di sfollati palestinesi.

RAID AEREI, blocco degli aiuti e minacce di avanzare via terra su Rafah, questo il resoconto in breve della giornata di ieri. Che ha continuato a ruotare intorno alla storica astensione statunitense. Un «errore morale ed etico», l’ha definito il ministro degli esteri israeliano Katz, che non solo – ha aggiunto – non farà tacere le armi ma costringerà Israele a mostrare il pugno duro (militare), più di quanto non faccia già.

È l’dentica linea del resto del governo che, ben consapevole che è stata proprio la minacciata avanzata su Rafah a far muovere gli Stati uniti, sfida apertamente l’amministrazione Biden. Da parte sua Washington, ieri, ha provato a smorzare la portata della risoluzione, lanciandosi in una disamina legale poco realistica: la risoluzione non sarebbe vincolante, dice la Casa bianca; lo è, come tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, rispondono gli altri membri (permanenti e non).

A dare il via alla diatriba sono state le parole del portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale degli Usa, John Kirby, secondo cui «non c’è alcun impatto su Israele e sulla sua capacità di continuare a dare la caccia ad Hamas». Dichiarazioni che facevano il paio con quelle dell’ambasciatrice all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, e con quelle del Dipartimento di Stato: «Non è vincolante».

Lo è, lo dice l’articolo 25 della Carta delle Nazioni unite, e il tentativo di sminuirla sembra una sorta di giustificazione per il futuro, quando dovranno essere prese misure per costringere le parti ad adeguarsi (come chiesto ieri dal presidente colombiano Petro: tagliare i rapporti diplomatici con Tel Aviv, ha scritto su X). Vero è che Israele non è mai apparso tanto isolato come oggi.

Di effetti ce ne sono già sul negoziato indiretto tra Hamas e Israele in corso a Doha: ieri la delegazione israeliana ha lasciato il Qatar, accusando che il movimento islamico palestinese di aver condotto il dialogo su un binario morto insistendo sul ritiro delle truppe israeliane da Gaza e il ritorno a casa degli sfollati, come prerequisito al cessate il fuoco. Il Qatar getta acqua sul fuoco: il negoziato prosegue.

A GAZA non ne arriva nemmeno l’eco. Quel poco di entusiasmo acceso dal voto al Palazzo di Vetro è scomparso presto, così come in fretta era evaporata la speranza generata dalla decisione della Corte internazionale di Giustizia, a fine gennaio.

Secondo i dati forniti dall’esercito israeliano, ieri sono stati presi di mira 60 obiettivi in tutta la Striscia ed è proseguita l’operazione contro l’ospedale al-Amal di Khan Younis (chiuso ieri – ha fatto sapere la Mezzaluna rossa – a causa dell’assedio israeliano iniziato domenica e dell’evacuazione forzata di chi c’era dentro, malati, medici e sfollati) e quella contro lo Shifa di Gaza City.

È qui, denunciano i palestinesi, che trenta persone sono state uccise ieri in un raid aereo che ha preso di mira una casa accanto all’ospedale, uccidendo buona parte della famiglia Abu Hasira. Il bilancio, dal 7 ottobre, sale a 32.414 palestinesi uccisi accertati (almeno 10mila i dispersi) e 74.787 feriti. Non si sa se nel conto siano finiti anche i dodici palestinesi affogati in mare mentre cercavano di recuperare i pacchi di aiuti umanitari lanciati dal cielo e i sei schiacciati dalla calca per recuperare un po’ di cibo.

UN’INIZIATIVA ampiamente criticata – che coinvolge Stati uniti, Francia, Egitto, Giordania ed Emirati – e che ha già ammazzato decine di persone (affogate, schiacciate o colpite dai pacchi precipitati ad alta velocità perché i paracaduti non si sono aperti).

Le critiche sono legate al significato politico di quegli aiuti: non solo sono insufficienti a fronte della carestia plateale nel nord di Gaza e crescente nel sud, ma sono volti ad aggirare l’assedio israeliano che tiene quasi del tutto chiusi i valichi terrestri impedendo a migliaia di camion fermi in territorio egiziano di entrare. Aggirano anche l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, da anni oggetto di una campagna di delegittimazione che in questi mesi ha toccato l’apice.

Ieri l’Unrwa – a cui svariati paesi occidentali hanno tagliato i fondi dopo le accuse, mai provate da Israele, di partecipazione di 13 suoi dipendenti all’attacco di Hamas del 7 ottobre – ha annunciato di avere fondi sufficienti solo fino alla fine di maggio.