Moshe Zuckermann è un sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv. È autore di libri sul conflitto in Medio Oriente, tra cui Israels Schicksal. Wie der Zionismus seinen Untergang betreibt (Il destino di Israele. Come il sionismo porta avanti il proprio declino). Fa parte del gruppo di studiosi della storia dell’Olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente che nel 2021 ha elaborato la “Dichiarazione di Gerusalemme”.

Il 7 ottobre per gli israeliani rappresenta una cesura. Quanto è profonda?

Molto profonda. Non credo di esagerare se dico che, a causa del fallimento completo di esercito e servizi segreti, gli israeliani non solo si sentono abbandonati dallo Stato, ma sentono che è stato eroso il mito israeliano della sicurezza. Non era nemmeno come la guerra dello Yom Kippur del 1973: quella volta sono morti soldati, non civili. Stavolta intere località si sono trovate completamente abbandonate a se stesse ed esposte a un attacco mai realizzato né da Hamas né da qualsiasi altra formazione ostile a Israele. Al momento c’è una guerra e non ci sono state azioni per far cadere il governo o istituire una commissione di inchiesta che chieda conto ai militari e ai servizi. Ma è del tutto evidente che per la popolazione Netanyahu è arrivato alla fine, e così il Likud. Ci sarà un cambio di governo prima o poi, ma il problema è che si è di nuovo in guerra e non devo raccontare io qual è la situazione nella Striscia di Gaza, stanno succedendo cose terribili. Ma la vera cesura nella popolazione israeliana è la perdita di fiducia nel governo e nell’esercito.

Pensa che da questo derivi l’insistenza del governo nell’affermare di voler distruggere Hamas? Sta tentando di garantirsi di nuovo la propria sopravvivenza politica?

Assolutamente. Vuole garantirsela e per Netanyahu va bene qualsiasi mezzo. È uno dei politici più scaltri e perfidi che abbiamo mai avuto. Qualsiasi manipolazione che sarà in grado di fare la farà. Netanyahu già da un anno viene criticato della popolazione perché è chiaro che subordina l’interesse dello Stato al suo interesse privato. E il suo interesse privato al momento è bloccare il processo che sta affrontando e sfuggire a un giudizio. A questo scopo ha cercato né più né meno che di rimuovere la suddivisione dei poteri in Israele, ha cercato di mettere fuori gioco il potere giudiziario e ha presentato come riforma della giustizia quello che era sostanzialmente un colpo di Stato. A questo si aggiunge il grande fallimento. Non solo il 7 ottobre, ma anche nelle settimane successive e fino a oggi, i ministeri e le istituzioni governative non stanno funzionando. Chi in realtà si sta facendo carico di rimettere in piedi le cose è la società civile. Il governo è completamente paralizzato e Netanyahu sta cercando di salvarsi la pelle.

Guardando da fuori, la società israeliana sembra molto compatta in questo momento.

È compatta, ma questo non cambia nulla rispetto al rapporto con il governo. La guerra ha un effetto di consolidamento. Le tensioni e contrapposizioni interne in un certo modo si annullano, ma la fiducia nel governo è tanto erosa che non vedo alcuna possibilità che Netanyahu possa sopravvivere. La domanda è per quanto tempo può portare avanti questa guerra. Perché non credo che la comunità internazionale lo permetterà. L’esercito parla di almeno tre mesi per la prima fase e di altri nove mesi per la successiva, ossia un anno di guerra. Se durerà così tanto, prima o poi si arriverà a rivolte nella società israeliana. Su una cosa c’è accordo: Hamas va annientata. Su questo sono tutti d’accordo e c’è anche il sostegno dei paesi europei e degli americani.

Dubbi e crepe nell’attuale sostegno più o meno incondizionato della comunità internazionale nei confronti di Israele possono avere conseguenze concrete?

Più si protrae la guerra a Gaza, più si vedranno le conseguenze dei bombardamenti e dell’intervento delle truppe di terra. Stanno morendo tantissimi civili, tantissime donne, tantissimi bambini. In Israele questo si vede meno, ma nel mondo si vedono le immagini di bambini dilaniati dalle bombe. Non sono stati straziati bambini solo il 7 ottobre, anche ora vengono fatti a pezzi. Più questo va avanti, più crescono gli effetti di quelli che eufemisticamente sono chiamati “danni collaterali”, più ci saranno crepe nella solidarietà con Israele. Prima o poi anche gli americani diranno “ora andiamo verso un cessate il fuoco”. E se si arriverà a un cessate il fuoco, e gli obiettivi di guerra che Israele si è dato non saranno stati raggiunti, si dirà che il governo ha fallito ancora una volta.

Cosa pensa degli episodi di antisemitismo che ci sono stati nel mondo e che tipo di reazioni ci sono in Israele? Il 7 ottobre può mettere in discussione l’idea di Israele come luogo sicuro per gli ebrei?

Io penso che Israele strumentalizzi il concetto di antisemitismo, ma penso anche che sia legato alla mancata distinzione tra antisemitismo, antisionismo e critica nei confronti di Israele. È possibile che quando si critica Israele ci siano anche elementi di antisemitismo, ma credo che la ragione principale sia soprattutto legata alla guerra e alla reazione che Israele ha avuto. Va fatta una distinzione tra antisemitismo in cui si è categoricamente contro gli ebrei e quello che si definisce antisemitismo legato a Israele. Che c’entra l’ebreo a New York o l’ebreo in Francia o in Italia con quello che fa Israele? Israele tra l’altro non ha nulla contro l’antisemitismo. Lo dico da anni. Quando c’è antisemitismo all’estero, per Israele è meglio perché può dire “noi siamo il luogo più sicuro”. Qualche giorno fa durante un’iniziativa pubblica un ex generale ha detto “conosco migliaia di israeliani che pensano che Israele non sia più il luogo più sicuro per gli ebrei”, e io lo dico da anni. Il luogo più pericoloso per gli ebrei è Israele, perché finché il conflitto in Medio Oriente sarà portato avanti con questo livello di violenza, potenzialmente può portare a una minaccia all’intera collettività in Israele. Gli Stati circostanti, Iran, Arabia Saudita e gli altri, sono armati fino ai denti. La tematica dell’antisemitismo è strumentalizzata: non ci si chiede quali siano le ragioni per le quali Israele agisce così e perché quindi si è critici verso Israele, o perché si reagisce in modo antisemita o antisionista. La domanda non viene posta perché c’è un elefante nella stanza che è l’occupazione, da oltre cinquant’anni in Cisgiordania, sulle alture del Golan…e anche se Israele nel 2005 si è ritirato da Gaza, questa è completamente sotto controllo israeliano. Se Israele vuole, nella Striscia non c’è elettricità, non c’è carburante, se Israele vuole nella Striscia non c’è neanche lavoro. Fino a quando questo durerà, Israele non può pensare di essere lasciato in pace. I palestinesi hanno buon diritto di opporre resistenza, non come il 7 ottobre, ma hanno diritto di resistere. Sono un popolo tiranneggiato da Israele, tenuto sotto un’occupazione repressiva. Hanno il pieno diritto di resistere. Se si guarda a come Israele ora sta radendo al suolo Gaza, ci si può immaginare che la prossima generazione di palestinesi che odierà profondamente Israele stia già crescendo. Fino a quando non si mira alla soluzione politica, si ripeteranno di nuovo catastrofi come quella che abbiamo vissuto non solo il 7 ottobre, ma ora a Gaza.

Lei pensa che abbia senso un’analisi se quanto successo il 7 ottobre viene rappresentato solo come conseguenza dell’occupazione? Dov’è secondo lei il confine tra un’azione di resistenza che è completamente legittima anche ai sensi della legalità internazionale e il terrorismo?

I palestinesi in linea di principio hanno il diritto a resistere perché sono sotto occupazione. Il fatto che poi degeneri – è stato un pogrom, non resistenza: non sono state attaccate forze militari, macivili, donne, bambini, neonati – è un eccesso che in nessun caso può essere accettato. Queste persone hanno agito in modo barbaro. Ma resta il fatto che i palestinesi non hanno un esercito ma solo formazioni di combattimento più vicine alla guerriglia o al terrorismo. Non hanno un’aviazione, né squadroni di carri armati. Ma rispetto a quello che abbiamo vissuto in Cisgiordania durante la seconda Intifada, quello che è successo il 7 ottobre è uno stato di eccezione. Quel giorno hanno effettivamente agito dei terroristi, non combattenti per la libertà. Non potevano trattenersi dall’uccidere sempre di più: ci sono video di alcuni giovani che sono entrati nelle case e hanno ucciso dieci civili e poi hanno telefonato a casa per vantarsi di quello che avevano fatto, dicendo al padre “dammi la tua benedizione per quello che sono riuscito a fare”. Ma devo aggiungere due cose: la prima è che la barbarie può essere commessa anche con attacchi aerei, lo stesso donne e bambini vengono fatti a pezzi; la seconda è che Hamas per me non è mai stato un movimento di liberazione. Per me i movimenti religiosi fondamentalisti non sono movimenti di liberazione. Io sono un marxista, ritengo che la religione non possa essere una motivazione per la liberazione se non va di pari passo con idee di emancipazione. Dal momento che Hamas è fondamentalista religioso, per me non è di una virgola migliore dei fondamentalisti religiosi che abbiamo da noi. I coloni della Cisgiordania non sono affatto migliori. Loro non hanno bisogno di uccidere bambini – anche se pure questo è successo – perché hanno i militari. I militari agiscono in maniera più elegante, hanno gli aerei da combattimento con i quali bombardano. Osservi come Hamas si comporta nei confronti della sua stessa gente, è già questa una evidenza di che tipo di società potrebbe scaturire da un movimento di tal sorta. Ma il problema è che quando si vive nella più grande prigione al mondo, non si può sviluppare una grande democrazia o una grande società civile.

Mi sembra che in alcuni appelli che chiamano alle mobilitazioni ci sia il tentativo di minimizzare o rimuovere ciò che è accaduto il 7 ottobre.

Il fatto che Israele attualmente stia compiendo atti barbarici in nessun caso può portare a minimizzare gli atti barbarici compiuti il 7 ottobre. È accaduta una barbarie e ora c’è una reazione che è una barbarie.

L’imbarbarimento cresce da entrambe le parti: di là ci sono infatti i coloni.

Se si vuole arrivare alle ragioni dell’imbarbarimento, bisogna avere chiaro che il conflitto israelo-palestinese non è un conflitto religioso o etnico, è un conflitto territoriale che risale almeno a 75 anni fa, da quando esiste uno Stato di Israele, ma fondamentalmente già da quando il movimento sionista è arrivato in Medio Oriente e ha cominciato a stabilirvisi. Da cinquant’anni si è consolidato un regime di occupazione che ha distrutto la possibilità della soluzione “due popoli, due Stati”. Occorre quindi cercare altre soluzioni politiche. Finché mancherà un approccio politico, finché non si vorrà risolvere il conflitto ma – come dice Netanyahu – “amministrarlo”, finché ci sarà questa occupazione, ci potrà essere solo escalation.

Lei si definisce un antisionista.

Non mi definisco antisionista, mi definisco non sionista. Antisionista è chi pensa che il sionismo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Ci sono anche ebrei che lo pensano, in particolare ultraortodossi, che ritengono che il regno degli ebrei non possa vedere la luce fino a quando non arriverà il Messia. Ci sono stati tempi in cui nel giorno dell’indipendenza appendevano drappi neri, come in un giorno di lutto. Altri antisionisti erano anche certi ebrei comunisti, i cosiddetti bundisti. Io non sono mai stato antisionista nel senso di affermare che il sionismo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. I miei genitori sono sopravvissuti ad Auschwitz, dopo la Shoah la nascita di uno Stato per gli ebrei è stata a lungo per me una necessità storica. Ma il fatto che sia stato realizzato sulle spalle dei palestinesi, che il torto subito dagli ebrei dovesse essere riparato attraverso uno Stato fondato e legittimato da una nuova ingiustizia, mi ha portato a dire “che tipo di sionista sono?”. Quando ho visto che Israele non vuole affatto la pace ma è interessato unicamente a fomentare guerre inutili, a guadagnare spazio per le colonie ebraiche, allora mi è stato chiaro che non avevo più niente a che fare con questo sionismo. Mi sono convinto che il sionismo ha imboccato un tale vicolo cieco che non ha possibilità di sopravvivere. Israele è diventato sempre più fascista, più razzista, è diventato uno Stato di apartheid. Si può discutere se il sionismo originario sia o no un movimento coloniale, ma a me pare chiaro che l’Israele in cui sono nato nel 1949 aveva già messo in atto la Nakba, il disastro nazionale per i palestinesi, ma stava anche costruendo una società civile, soprattutto a fronte del fatto che gli ebrei nel XX secolo avevano subito qualcosa di gravissimo. L’Olocausto è stato una cesura come mai prima nella storia ebraica.

È possibile arrestare il declino di cui parla nel libro “Il destino di Israele”?

Non intendo declino come evento metafisico o mistico, piuttosto come qualcosa che strutturalmente si lega all’agire storico del sionismo. Il sionismo dopo il 1967 non voleva restituire i territori occupati. Tutti i governi israeliani, anche quello di Rabin, hanno costruito insediamenti. E oggi abbiamo a che fare con 650.000 coloni ebrei in Cisgiordania. Questo significa che se oggi si vuole ancora implementare la soluzione dei due Stati, bisogna fare in modo che se ne vadano da lì. Se si è minata la soluzione dei due Stati – è stata l’opera della vita di Ariel Sharon – bisogna confrontarsi con un dato di fatto: ormai tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, è nata una struttura binazionale. Non dico ancora Stato, dico struttura. Perché palestinesi e ebrei sono circa 50/50 in questo territorio. Questa struttura può essere ratificata democraticamente verso uno Stato unico di tutti i cittadini. Ma se questo non viene fatto, allora ufficialmente ci si è accomodati in uno Stato di apartheid. Perché gli ebrei con il loro Stato dominano una minoranza che già non è più una minoranza, siamo già a una suddivisione paritaria del paese. Questo il vicolo cieco nel quale si è andato a cacciare il sionismo e per il quale non ha una soluzione perché è diventato ufficialmente uno Stato di apartheid. Per questo dico che il sionismo porta avanti il proprio declino: se diventato uno Stato di apartheid, è diventato un paria nella popolazione mondiale, prima o poi si ripresenterà la situazione del Sudafrica.

E dall’altra parte secondo lei c’è qualcuno lo vuole?

Non è possibile chiedere niente ai palestinesi perché sono sotto lo stivale degli israeliani. C’è stato un momento che a posteriori mantengo come utopia percepita, a metà degli anni ’90 quando Rabin e Arafat erano pronti ad andarsi reciprocamente incontro. Arafat sarebbe stata quella persona. E anche oggi ci sono persone del genere tra quelle che Israele tiene prigioniere, per esempio Barghouti. Ma al momento è inattuabile perché Israele, soprattutto sotto Netanyahu, ha spazzato via la soluzione politica. Nessuno oggi in Israele parla di occupazione o soluzione politica. La pace sembra essere la più grande minaccia. Le forze fasciste nazionalreligiose ormai si sono rafforzate così tanto che non sono più solo un’appendice ma un fattore nella politica israeliana. Pensi dove Bezalel Smotrich e Ben Gvir sono arrivati oggi. Ben Gvir è un kahanista, un successore di Meir Kahane, che negli anni ’80 fu messo al bando dal parlamento israeliano. Oggi Ben Gvir non solo non è bandito ma è ministro di polizia. E l’altro, il ministro delle finanze Smotrich, non è migliore di lui. È un tema cosa vogliono i palestinesi, ma i palestinesi sono costretti a volere quello che gli israeliani rendono possibile e gli israeliani al momento non rendono possibile niente.