Il 25 aprile 1994 è il primo della cosiddetta seconda Repubblica, dopo il crollo e la scomparsa dei partiti politici che avevano le radici nella Resistenza e l’ascesa di formazioni estranee all’antifascismo o direttamente post fasciste. Il simbolo di Movimento sociale italiano c’era ancora sulle schede elettorali delle politiche, da poco concluse, e aveva contribuito alla vittoria di Berlusconi. Solo quattro mesi prima, Gianfranco Fini che ne è il capo era arrivato al ballottaggio a Roma. Adesso promette un rinnovamento. Ma non è un pesce d’aprile quello che consegna ad Alberto Statera della Stampa il primo di quel mese: «Mussolini è stato il più grande statista del secolo e Berlusconi dovrà pedalare per entrare nella storia come lui». Pochi giorni dopo se ne sarebbe pentito, «non ho nostalgie», e due mesi dopo già accettava, intervistato da Le Monde, di «definirmi antifascista, se vuol dire amore per la libertà».

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Il 7 aprile la prima pagina del manifesto è occupata da un appello, scritto da Luigi Pintor, per «la più grande manifestazione che si sia mai vista, popolare e nazionale, nazionale e popolare, borghese e proletaria, giovane e vecchia, maschile e femminile, rossa e verde e magari bianca, escludendo il nero, nel quarantanovesimo anniversario del 25 aprile 1945».

la copertina del manifesto del 7 aprile 1994
Si potrebbe… il manifesto del 7 aprile 1994

L’incipit dell’appello è rimasto famoso: «Si potrebbe». Si potrebbe, diceva, «farla a Roma, naturalmente, oppure a Genova, che ha una certa tradizione in materia, oppure a Napoli». Si fece a Milano, che non era venuta in mente perché aveva da poco un sindaco leghista (con Rifondazione secondo partito cittadino, però). Fu una manifestazione enorme, alla quale partecipò anche Bossi (fischiato). Il governo Berlusconi cominciò a traballare prima ancora di nascere. Centinaia di migliaia di persone sfilarono verso piazza Duomo partendo da tre punti diversi, sotto una pioggia battente.

Quel 25 aprile 1994 a palazzo Chigi c’è ancora il partigiano Carlo Azeglio Ciampi in attesa di passare le consegna a Berlusconi. Il cui governo però regge poco, tanto che l’anno successivo, quello del cinquantesimo della Liberazione, non c’è più. Ma la destra è ormai uno dei due poli della politica italiana e non arretra nella sua battaglia (anti)storica. Nelle tesi di Fiuggi, la metamorfosi del Msi in Alleanza nazionale, c’è scritto che bisogna farla finita sia con il fascismo che con l’antifascismo. Sono passati appena tre anni da quando il partito di Fini celebrava la marcia su Roma in piazza Venezia, in camicia nera e saluti romani. Adesso la parola d’ordine è «pacificazione». I giovani di An lo scrivono in una lettera aperta al presidente della Repubblica Scalfaro, il quale però risponde partecipando alla manifestazione nazionale a Milano: «La storia non si può cambiare e nessuno la può mutare. La vera pacificazione non può confondere la parte giusta con quella sbagliata». Berlusconi non lo ascolta, non partecipa: «Motivi di sicurezza».

Le fughe del Cavaliere dai 25 aprile – talvolta con una scusa, talaltra ostentando il rifiuto – accompagneranno tutti gli anni successivi, sempre all’insegna della polemica contro la festa «divisiva». Inutili, da questo punto di vista, anche le aperture di Luciano Violante, che nel maggio del ’96, neo presidente della camera, invita a capire le ragioni dei «ragazzi di Salò» e nel marzo del ’98 si incontra con Fini a Trieste per concedere lo stesso credito. Intanto il sindaco di centrosinistra di quella città, Riccardo Illy, propone di sostituire il 25 aprile con un’altra data, che sia buona per ricordare le vittime di «ogni totalitarismo».

Ma la Liberazione è ancora una festa popolare e l’antifascismo un sentimento diffuso, lo sa anche Berlusconi che, infatti, nel 2001 quando il 25 aprile cade pochi giorni prima delle elezioni politiche (che vincerà) organizza uno spettacolo celebrativo della Resistenza, riletta a modo suo, a Torino. Due anni dopo è lo stesso Berlusconi che in un’intervista a Boris Johnson, allora direttore di The Spectator, spiega che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno». Proprio nel 2003 Ciampi sposta le celebrazioni ufficiali del 25 aprile al Quirinale, Berlusconi le diserta e insiste nella sua campagna di equiparazione dei «due totalitarismi», fascisti e comunisti. Il suo portavoce Bondi, ex comunista, è convinto che siano stati i partigiani gli autori della strage di Marzabotto. Nelle manifestazioni della Liberazione compare la bandiera della pace: la seconda guerra del Golfo è appena cominciata.

Nel 2005 il 25 aprile ha ancora un nuovo significato: la difesa della Costituzione contro il tentativo di riforma che il centrodestra sta portando avanti (naufragherà l’anno successivo al referendum). Firmano un appello la vedova di Pertini, Carla Voltolina, e con lei Rossana Rossanda, Giovanni Pesce, Tullia Zevi e Giorgio Bocca. Sopravvissuto politicamente anche a questo, Berlusconi qualche anno dopo proporrà di cambiare nome alla festa: non più della Liberazione ma della Libertà.

Dal 2012 in avanti le polemiche si concentrano sulla manifestazione di Roma. Sotto attacco è l’Anpi. Prima perché esclude dal palco il sindaco Alemanno, quello con la croce celtica al collo. Poi perché non esclude dalla piazza i rappresentanti dei palestinesi, dopo che nel 2014 era finita a spintoni con il servizio d’ordine schierato a protezione della brigata ebraica. L’onda lunga delle tensioni in Medio Oriente arriva fino ai nostri 25 aprile, da allora la comunità ebraica non partecipa più alla manifestazione dell’Anpi, malgrado i tentativi di riappacificazione nei quali si era impegnata Carla Nespolo.

Polemiche contro l’Anpi anche nel 2016, quando un’altra riforma, quella Renzi, stava per andarsi a schiantare e il presidente Carlo Smuraglia era un protagonista della battaglia per il No. E ancora l’anno scorso, quando l’Anpi di Gianfranco Pagliarulo è accusata di essere filorussa perché pacifista. Accusa durata il tempo di un 25 aprile, mentre il pacifismo resta. E la guerra pure.