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Quella ritirata travestita da offensiva

Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980 Berlinguer annunciò di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica»Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980 Berlinguer annunciò di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica»

1984-2024, il caso Berlinguer L’Alternativa democratica era una via obbligata e impraticabile, la sua scommessa sono stati i tre anni di Solidarietà nazionale

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 giugno 2024

Si scrive Enrico Berlinguer, si legge Compromesso storico, si traduce Solidarietà nazionale. La grande sfida politica della vita di Berlinguer è stata quella illustrata nei tre articoli su Rinascita tra il settembre e l’ ottobre 1973, per lanciare la quale il golpe cileno fu in tutta evidenza solo un’occasione da cogliere. La scommessa azzardata nella quale il segretario del Pci si giocò tutto e dalla quale né il Pci né la classe operaia italiana si sono più ripresi sono stati i tre anni di non sfiducia prima e di appoggio esterno poi ai governi monocolore di Giulio Andreotti.

L’ultimo scorcio della segreteria e della vita di Berlinguer, i primi anni Ottanta, non sono stati la fase eminente della sua parabola politica.

Quella interpretazione, magari dettata dalle migliori intenzioni, riduce quasi a parentesi il decennio precedente. Il «vero» Berlinguer sarebbe quello dell’Alternativa democratica e della questione morale: l’anticraxiano. Ma l’Alternativa democratica, peraltro impraticabile, era una via obbligata dopo la rottura voluta e praticata dalla Dc; che non esitò a liberarsi del Pci appena capì di non averne più bisogno. La questione morale, pur fondata, fu l’appiglio al quale provò ad attaccarsi una leadership che aveva dovuto prendere atto che la rotta seguita per anni non portava ad alcun approdo. La corruzione non era nata con gli anni Ottanta, non fu una scoperta successiva allo scandalo del terremoto in Irpinia. Giganteggiava anche di più quando, nel mezzo del compromesso, Aldo Moro affermava in pieno Parlamento che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze per lo scandalo Lockheed. Berlinguer ritenne allora che fosse opportuno non formalizzarsi e dal suo punto di vista aveva ragione. Al cospetto della strategia ambiziosa che aveva in mente quello scandalo e quelle parole tracotanti erano davvero robetta.

Del resto per chiarire la differenza tra l’investimento enorme che il segretario aveva riposto nel Compromesso e quello di risulta che portò all’Alternativa democratica basta mettere a confronto l’accuratezza quasi scolastica degli articoli sul golpe cileno, con l’approssimazione della nuova linea, messa insieme per lanciare «il governo degli onesti e dei competenti». Oppure basta mettere su un piatto della bilancia la ruvida drasticità con la quale Berlinguer, subito dopo aver lanciato il Compromesso, affidò i posti chiave della segreteria agli uomini della destra amendoliana, considerandoli giustamente i più adatti e anzi i soli adatti a gestire quella linea politica, e sull’altro la timidezza con la quale riassegnò le postazioni dopo la «svolta».

A prima vista l’indirizzo scelto da Berlinguer con poteva sembrare una riproposizione piatta del compromesso togliattiano e in effetti ci fu chi per tale la prese. Ma c’era di mezzo, come notarono i più acuti, quella paroletta «storico», che cambiava tutto. Nella visione di Enrico Berlinguer non c’era niente di tattico. Per quanto giustificata con considerazioni pragmatiche, non era neppure frutto di un realismo pragmatico come quello del Migliore. Quello del compromesso storico era l’orizzonte in cui Berlinguer credeva profondamente, il percorso che pensava potesse portare avanti l’Italia dopo la tappa segnata dalla Costituzione del 1948.

La solidarietà nazionale non era il compromesso ma era il primo passo su quella via e pur di imboccarla il segretario e tutto il partito, con la sola eccezione del predecessore Luigi Longo, accettarono condizioni capestro e ne furono soffocati. Come del resto era nei progetti lucidi di Andreotti e anche di Moro, se si deve dar credito a quel che racconta nelle sue memorie l’allora ambasciatore degli Usa in Italia Richard Gardner.

Per Berlinguer l’austerità non avrebbe certamente dovuto ridursi alla penalizzazione drastica delle fasce sociali che il Pci storicamente rappresentava. Lui stesso si lamentò sempre di quanto poco fosse stata capito il senso di quella formula. Però non avrebbe dovuto essere un filosofo liberale come Norberto Bobbio a ricordare ai comunisti che «solo coi sacrifici non si trasforma la società: l’austerità in genere è una raccomandazione dei padroni».

Il Pci non sarebbe arrivato al governo con il Compromesso storico, e l’essersene reso conto costrinse Berlinguer a quella ritirata travestita da offensiva che fu l’Alternativa democratica. Non ci sarebbe arrivato neppure se avesse seguito la linea opposta, quella suggerita dall’anziano Longo. Ma a metà degli anni Settanta la fortissima spinta dal basso che partiva soprattutto dalle fabbriche e traversava l’intera società italiana avrebbe permesso, a fronte di una Dc e di un padronato smarriti, divisi, costretti sulla difensiva, di imporre alterazioni rilevanti degli equilibri e dei rapporti di potere sociali. Quando Berlinguer fu costretto a imboccare quella strada, stavolta in contrasto con Amendola, era tardi. La sconfitta si era consumata ed era irreversibile.

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