Cultura

Quel tocco epico dell’enogastronomia

Quel tocco epico dell’enogastronomiaPiero Manzoni, «Achrome», 1961-62

Cucine letterarie / 6 L’amore per la tavola lombarda in «La pacciada» di Gianni Brera che, nemmeno quarantenne, era stato ospite in tv da Soldati per parlare giusto della «monda» o pulizia delle rane

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 20 agosto 2019

Se è vero che avere fame è un fatto naturale e mangiare un atto culturale, allora è anche vero che il grande libro di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (qualcosa come 15 riedizioni fra il 1891 e il 1911, anno della morte dell’autore), rappresenta la fondazione della coscienza gastronomica italiana. Per complessive 744 ricette, quel poligrafo romagnolo trasferitosi a Firenze inventa retrospettivamente una tradizione culinaria secondo una finalità capace di coniugare almeno tre valori della borghesia secolare e dunque la economicità dei mezzi, la garanzia dell’igiene e l’equilibrio del buon gusto.
Artusi opera sulla base di un doppio gesto selettivo che, a priori, da un lato evita l’orgoglio dialettale e particolaristico (la sua adorata piada romagnola tuttavia fa premio sulle disprezzate «pappette» toscane) ma dall’altro diffida di una ricercatezza blasée, specie quella sottomessa al mito della cucina francese. La tradizione di Artusi deduce e valorizza nel lungo periodo la cosiddetta cucina «domestica», popolare in quanto condivisa dall’autore con i gusti e i costumi della media borghesia post-risorgimentale.

UN NOSTRO STORICO, Mario Isnenghi, in proposito ha evocato una possibile analogia con la visione politica di Carlo Cattaneo, ma si potrebbe qui aggiungere anche il nome di Francesco De Sanctis, circa il cànone storico-letterario, o quello molto meno noto di Giovanni Battista Cavalcaselle (che dopo l’Unità censì, dragando a piedi la penisola, il patrimonio disperso o negletto della pittura italiana) e finalmente di Alessandro Manzoni la cui risciacquatura in Arno (il fiorentino dei «benparlanti» che intride l’ultima edizione dei Promessi sposi, 1840) fu da allora portata ad esempio di correttezza linguistica e anzi di esclusivo modello in tutte le scuole del Regno.
Né Manzoni né Artusi sono ovviamente responsabili del loro uso pubblico e del fatto che soltanto più avanti e comunque solo dopo il ventennio fascista (grosso modo all’altezza del Miracolo economico che minaccia o già estingue le culture particolaristiche) la tradizione italiana viene reinventata non più secondo un’ottica monocentrica bensì decisamente policentrica e lo dicono ad esempio sia lo studio di Carlo Dionisotti Geografia e storia della letteratura italiana (1967) sia la magistrale introduzione alla Scienza in cucina (1970) a firma di Piero Camporesi, l’autore de Il paese della fame (’78), uno studioso della cultura materiale unico nel suo genere, nel cui gesto analitico e affabulatorio si intramano la letteratura, la filologia e l’antropologia. Già molti anni prima, al tempo della neonata televisione (presto il più pervasivo strumento di pedagogia collettiva), un cineasta e scrittore sommamente originale e bon vivant, Mario Soldati, aveva realizzato in dodici puntate monografiche un programma dal titolo inequivoco, quasi una secessione dal modello artusiano, e cioè Viaggio nella valle del Po alla ricerca di vini e cibi genuini (e ciò vuol dire anche minacciati per la prima volta in massa dalla incipiente industrializzazione delle campagne).

PROPRIO IL PIEMONTESE Soldati risulta il meno centralista o nazionalista e non per caso una foto di trent’anni dopo (ora in Scrittori per un secolo, a cura di Goffredo Fofi e Giovanni Giovannetti, Linea d’ombra 1993) lo ritrae a tavola, durante una seduta del Premio Nonino, mentre discute animatamente con l’invece impassibile Piero Camporesi: vicino a loro, mentre tenta di accendersi un sigaro toscano, siede signore atticciato, la barba sale e pepe, senz’altro il più famoso dei tre, e magari non ci aspetteremmo di trovarlo in un simile consesso. Costui è Gianni Brera (1919-1992) universalmente noto come critico sportivo (Il Giorno, Il Giornale, Repubblica) come nemico dei calciatori senza nerbo e fondo atletico (su tutti Gianni Rivera) nonché teorico del calcio all’italiana anche detto «catenaccio» (difesa chiusa e contropiede).

AI SUOI OCCHI tale modulo di gioco corrisponde al calcio dei poveri nella stessa misura in cui il riso e lo rane abbondano nella cucina dei medesimi. Lunghe minutissime riflessioni storiche ed etnologiche motivano le tesi breriane a partire da un amore viscerale per la terra d’origine (egli è nato a San Zenone Po, in provincia di Pavia, sulla riva sinistra del gran fiume) e più generalmente per la Lombardia, un tratto talvolta decisamente apologetico ma impensabile tuttavia come antefatto o movente dei futuri deliri in camicia verde, tra ampolle del Po e identità di princisbecco.
Il suo motto, va aggiunto, da sempre è una frase di Ariberto da Intimiano, un antidoto contro-identitario di poco successivo all’anno Mille, secondo cui chi arriva a Milano e sa lavorare è un uomo libero. Brera è il più antimanzoniano degli scriventi, perché utilizza anche e specialmente sulle pagine dei quotidiani una lingua mescolata, iperespressiva, satura di apporti dal dialetto nativo come dai metalinguaggi, piegando lo stile non nel senso di Gadda (che infatti ritiene uno squisito intarsiatore e nient’altro) ma verso la pienezza tridimensionale del racconto.

BRERA È UNO SCRITTORE materialista, alla lettera, e il suo amore per la cucina lombarda, il suo netto rifiuto del centralismo artusiano o comunque di ogni eclettismo, lo testimonia a oltranza. Appassionato di caccia e di pesca, a mille simposi Brera ha presenziato e in mille occasioni ne ha scritto però mai nella forma compiuta, felicemente sbrigliata e si direbbe per sempre assaporata, della lunga memoria dal titolo La pacciada. Mangiarebere in pianura padana che esce da Mondadori nel 1973, riproposta da Baldini&Castoldi nel ’98 con una bella introduzione di Gianni Mura, infine da BookTime nel 2014 a cura di suo figlio Paolo. Qui va aggiunto che a Brera spetta la prima parte storica e autobiografica mentre la seconda relativa alle ricette tocca a una penna in tutto antipode alla sua, quella dell’indimenticabile Luigi Veronelli le cui expertise di grafia limpidissima si concentrano in schede in tutto degne di uno storico dell’arte.
Intanto Pacciada viene dal latino patulare, spalancare la bocca, e vale «pacchiata», «spanciata»: in Lombardia si usa anche il verbo «pacchiare» mentre nei dialetti centrali è attestato il medioriflessivo «impacchiarsi», sinonimo di bisboccia e compiaciuto divertimento.

QUESTO VUOL DIRE che l’orizzonte breriano non guarda, artusianamente, all’eredità della cucina domestica e borghese ma all’inventiva di una cucina proletaria non meno civile perché si origina dall’istinto di sopravvivenza. La definisce cucina modesta e cioè la cucina del risotto in tutte le salse, delle rane fritte o in guazzetto (un Brera nemmeno quarantenne era stato ospite in tv da Soldati per parlare giusto della «monda» o pulizia delle rane) , talora ma rara avis della cotoletta o della sleppa di manzo, dei salumi e formaggi da innaffiare col vino Barbacarlo, variante pavese del più noto Barbaresco: «La verità è che in Italia si compiono prodigi unicamente nella cucina modesta (petite cuisine) che è anche dei cinesi e, in genere, di tutti i poveri non privi di genio. L’antico egoismo delle classi dominanti italiane ha sempre negato conoscenza ai poveri. Chi si induce a scorrere certi elenchi di vivande, negli appunti dei cuochi cinquecenteschi, rimane a dir poco allibito: e subito si domanda perché mai nessuno abbia codificato, in seguito, così ricco bagaglio di cultura pratica».

INFATTI, IL MILANESISSIMO risotto la cui più nobile ricetta, Risotto patrio (ne Le meraviglie d’Italia, 1961), si deve a Carlo Emilio Gadda a Brera non piace in quanto sospetta nello zafferrano una trovata da nuovi ricchi. Brera scrive quando non è ancora tempo di nouvelle cuisine né, tanto meno, dei cuochi riveriti alla stregua di maîtres à penser veri e propri: egli passa piuttosto al setaccio i suoi luoghi (narrando persino di un ritorno in incognito a San Zenone per valutarne, dopo tanto tempo, il livello enogastronomico) né disdegna affatto la casa degli amici, talora maestri inaspettati come «Maria dei risotti» che abita il finale della Pacciada pari a una divinità dispensatrice. Ed è molto probabile che l’odissea del vino e del cibo implicasse ogni volta la speranza di un ritorno all’origine. Ha raccontato Gianni Mura che una volta, a Parigi, Brera insistette per entrare in un locale russo con l’insegna dello storione, l’anguilla del Po («Ho voglia di roba delle mie parti»). Mangiarono da cani, eppure Brera: Lo storione… lo vuoi capire o no che è come se vedessi mio padre?

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.

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