Le sette divinità di un chicco di riso
Cucine letterarie / 14 Un testo scritto nel XIII secolo, dal titolo «Istruzioni a un cuoco zen». In epoca Kamakura, il grande maestro e monaco Dogen Kigen Zenji racconta del «tenzo», cioè chi prepara i pasti per la comunità
Cucine letterarie / 14 Un testo scritto nel XIII secolo, dal titolo «Istruzioni a un cuoco zen». In epoca Kamakura, il grande maestro e monaco Dogen Kigen Zenji racconta del «tenzo», cioè chi prepara i pasti per la comunità
Kome. Riso. Il cibo più semplice e alla base della vita quotidiana, nella lingua giapponese viene comunemente accompagnato dal prefisso onorifico «o»: okome, l’«onorevole riso» e se non bastasse a far capire quanto a questo alimento sia legata la sussistenza e il destino del popolo giapponese da secoli si pensi che il termine gohan, che indica il pasto, – anche in questo caso con la particella onorifica «go» come prefisso: l’«onorevole pasto» – in sostanza indica e coincide con la ciotola di riso bianco. Quella ciotola che si insegna sin da piccoli a ripulire con le bacchette senza lasciare neppure un chicco di riso perché in ognuno vi sono sette divinità e che non manca mai di essere svuotata portandola direttamente alla bocca, poco elegantemente secondo il galateo occidentale, da personaggi buffi nei film di animazione giapponese.
Alla divinità del riso Inari che prende le sembianze di volpe sono dedicati santuari shintoisti disseminati su tutto il territorio a guardia dei quali solitamente vi è una coppia di volpi e sempre dalle piante di riso essiccate sono ricavate le grandi corde sacre shimenawa che segnano l’entrata al santuario o un’area naturale particolarmente sacra.
LA COSA PIÙ CURIOSA però è che questo culto, legato in origine all’agricoltura e a una ritualità domestica, abbia preso forma ufficiale e si sia diffuso in seguito all’entrata del buddhismo. Il primo santuario alla divinità Inari sembra essere stato eretto dal monaco Kobo Daishi fondatore della scuola Shingon di buddhismo e del grande tempio Toji di Kyoto in epoca Heian (IX secolo). Tuttavia c’è un piccolo testo, scritto nel XIII secolo, in epoca Kamakura, dal più grande maestro e monaco zen Dogen Kigen Zenji (1200-1253), che si intitola Tenzo kyokun ovvero Istruzioni a un cuoco zen, ed è il primo capitolo del suo volume sulle Regole per la comunità zen, lo Eihei shingi, in cui dettò le linee guida, le regole e lo spirito della vita quotidiana monastica attraverso insegnamenti ma anche esempi storici cinesi e giapponesi, parabole e indovinelli zen (koan) che stimolano la meditazione in un momento in cui l’insegnamento del buddhismo Zen delle scuole Soto e Rinzai cominciava a essere importato dalla Cina, allora punto di riferimento culturale, ancora senza una consapevolezza vera del suo significato.
DOGEN FA DEL RISO l’elemento base della disciplina zen quotidiana e del cuoco del monastero, il tenzo, la figura rappresentativa della disciplina meditativa zazen, che opera nelle attività quotidiane. Già dalle prime righe Dogen fa capire che il tenzo non è uno chef né uno sguattero, ma il suo compito di responsabile della preparazione dei pasti per la comunità fa parte dei sei incarichi di gestione del tempio che è sempre stato svolto da maestri «stabili nella Via e da altri che avevano risvegliato in sé lo spirito dei bodhisattva». Dunque lavare e preparare il riso e le verdure per colazione, pranzo e cena dei monaci, ripulire le stoviglie, riporre pentole e utensili ordinatamente al proprio posto, assicurarsi gli ingredienti per il giorno dopo nella giusta quantità, non è un’attività da demandare a sottoposti ma «una pratica che richiede l’esaurimento di tutte le vostre energie» e da farsi con le proprie mani. Non come faceva il tenzo del tempio Kenninji quando Dogen si recò per due anni a studiare di ritorno dalla Cina che non si curava del suo ruolo ed era praticamente un nullafacente! E nel dire questo la semplice azione del lavare il riso dalla polvere che normalmente si farebbe con distrazione e noncuranza diventa il momento della meditazione, del qui e ora, in cui la mente ma anche il corpo sono un tutt’uno e si riesce a «vedere solo quello che richiede la situazione». D’altra parte è questo il segreto di ogni maestro e di ogni arte in cui mani e mente si muovono all’unisono, leggeri tra quanto già acquisito e il nuovo che si va creando. Nel cuocere il riso «considerate la pentola la vostra testa, l’acqua il vostro sangue» dice Dogen, e «nel lavare il riso levate tutta la polvere. Nel farlo non perdete neppure un chicco di riso. Quando esaminate il riso, guardate contemporaneamente la polvere; quando esaminate la polvere, guardate anche il riso … allora preparate naturalmente un pasto che contiene i sei sapori e le tre qualità».
DOGEN insegna attraverso la semplicità dei pasti monastici la magnanimità, la capacità di accettare ciò che si ha davanti in ogni momento della vita, «è essenziale non lagnarsi della qualità degli ingredienti», «una pietanza non è necessariamente superiore perché l’avete preparata con ingredienti di prima qualità, né una minestra inferiore perché l’avete fatta con verdure ordinarie», tutto va accettato e utilizzato al meglio perché «una semplice verdura ha il potere di divenire la pratica del Buddha». È nel modo in cui si fa qualcosa che cambia il senso di quella cosa, e Dogen porta l’esempio di amorevolezza di un genitore verso il figlio nella preparazione del cibo.
«La mente magnanima è come una montagna, stabile e imparziale. Paragonandola all’oceano, è tollerante e considera ogni cosa dalla prospettiva più ampia». Non c’è koan o parabola zen che non faccia riferimento all’illuminazione di antichi maestri riferendosi a loro esperienze legate al cibo. Il monaco cinese Dongshan (nome giapponese Tozan Ryokan), vissuto durante l’epoca Tang e di cui Dogen accolse gli insegnamenti tredici generazioni dopo fondando lo Zen Soto in Giappone, alla domanda: «Cos’è il Buddha?» rispose: «Tre libbre di sesamo». Che non significa una banalità come potrebbe essere percepito in tempi contemporanei di abbondanza, ma il solo necessario, ciò che si ha, e quindi tutto.
UNA LETTURA DIVERSA di quello che era anche lo spirito della cerimonia del tè in epoca Muromachi quando fiorì in Giappone, in cui si riciclavano gli oggetti, si aggiustavano se necessario, si sceglievano per le loro forme essenziali, grezze, aderenti alla natura, con un senso di povertà non diminutivo ma di valorizzazione del presente e di ciò che si ha. Di Wuzhao, tenzo in un monastero sul monte Wutai, si racconta che un giorno apparve d’improvviso Manjusri, bodhisattva che incarna la saggezza del Buddha, sulla pentola in cui cucinava il riso. Wuzhao lo colpì e disse: «se apparisse sulla pentola, colpirei pure Shakyamuni!», che significa che nessuna distrazione è ammessa durante la propria azione pura, esattamente come deve succedere quando ci si siede in meditazione (zazen). E ancora il monaco Yunmen alla domanda «che cos’è il samadhi?» rispose: «Riso nella ciotola e acqua nel secchio».
Samadhi indica lo stato di unione tra soggetto meditante e soggetto della meditazione e di nuovo la risposta a un concetto così complesso arriva come un fulmine a ciel sereno, con un esempio tratto dalla vita concreta di ogni giorno. Nella vita di un monaco zen ogni attività è disciplina meditativa, non nel senso superficiale di calmare la mente pensante, come forse la maggior parte delle persone crede, ma di vivere nella pienezza ogni azione di per sé: spazzare il giardino, rastrellare la ghiaia, cucinare per la comunità, fare calligrafia, arrangiare i fiori, sedere a meditare. Il processo di preparazione di ogni azione è la Via (Do) e la cucina è forse uno dei campi di azione più efficaci per comprendere il Sé e far fiorire il proprio fiore, del qui e ora. Tenzo kyokun è un libro di cucina sulla vita.
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