Un asinello in bronzo di Corinto con sopra un basto – da una parte colmo di olive nere, dall’altra chiare – spiccava al centro del piatto di portata. Sulla groppa dell’animale, oltre a due piatti d’argento sui cui orli era stato inciso il nome di Trimalcione e il peso del metallo prezioso, c’erano dei ponticelli saldati assieme che sorreggevano ghiri conditi con miele e salsa di papavero. Salsicce friggevano sopra una graticola d’argento, sotto la quale rifulgevano allettanti prugne di Siria e chicchi di melagrana. Il magnificente antipasto servito tra muri raffiguranti il corso della luna nel cielo e sette pianeti è solo l’inizio di una sequenza di strabilianti pietanze descritte nella Cena Trimalchionis, gustosa novella incastonata nel Satyricon, libro satirico che già nel titolo potrebbe celare una connotazione culinaria poiché derivante dalla parola latina satura ovvero mélange di ingredienti.

IL PIÙ CELEBRE romanzo dell’antichità, che nel 1969 ispirò l’omonima e baroccheggiante pellicola di Federico Fellini, è un’opera frammentaria e misteriosa tradizionalmente attribuita a Petronio. Costui sarebbe da identificare con il Petronius Arbiter menzionato negli Annali di Tacito, un ex console noto per la sua dissolutezza e al contempo eletto da Nerone «arbitro di eleganza». Caduto in disgrazia in seguito alle calunnie dello spregiudicato Tigellino, nel 66 a.C. Petronio (il cui cognomen originario era Niger) si suicidò tagliandosi le vene. Nei Carmina di Sidonio Apollinare viene citato un Arbiter che soleva onorare il dio Priapo nei giardini di Marsiglia. Per lo scrittore gallo-romano vissuto nel V secolo d.C. i brani perduti del Satyricon si svolgerebbero proprio nella città focea. Un’ipotesi recente di René Martin, il quale colloca Petronio in epoca flavia, identifica l’autore del Satyricon con il segretario di Plinio il Giovane. Tale teoria è stata ripresa dallo storico Maurice Sartre. I protagonisti del racconto sono tre giovani scapestrati: Encolpio, Ascilto e Gitone, le cui peripezie s’ingarbugliano tra fanciulli imberbi, riti priapici e voraci cortigiane.

ASSIEME AL RETORE Agamennone, presso la cui scuola si era recata ad ascoltare una declamazione sulla decadenza dell’oratoria, la pittoresca triade partecipa al banchetto allestito nella sontuosa (e, ai nostri occhi, pacchiana) dimora di un ricco affrancato, che porta nel nome le insegne della sua riuscita: Trimalchio, il «tre volte re». L’episodio della cena, che occupa circa un ottavo del volume, si svolge in un’ignota città dai costumi grecizzanti situata nella costa campana. Dopo l’artificio del mulo carico di delizie che aveva inaugurato la gustatio, la sfilza di fercula (portate principali) debutta con uno scherzo gastronomico: da un cestino adagiato su un vassoio spunta una gallina di legno con le ali aperte a cerchio come stesse covando.

L’opulento padrone, entrato trionfalmente nel triclinio a suon di musica col suo foulard a frange svolazzanti, avvisa: «Amici, ho fatto mettere sotto la gallina delle uova di pavone ma, per dio, mi sa che ci sia già dentro il pulcino». La boutade non scoraggia Encolpio – voce narrante dell’avventurosa abbuffata – che dopo aver rotto il guscio ricoperto da un impasto di farina, vi trova «un beccaccino da favola immerso in salsa piccante di tuorlo». Mentre un Falerno di cent’anni sgorga da anfore di cristallo, giunge una portata inferiore all’attesa dei commensali ma capace di stupire per la sua originalità: una grossa teglia rotonda esibisce tutt’intorno i segni dello zodiaco, sopra ciascuno dei quali il cuoco aveva disposto specialità appropriate a ogni simbolo, come ceci di Arezzo sull’Ariete e fichi africani per il Leone.

TESTICOLI E ROGNONI rappresentavano i Gemelli, una vagina di scrofa sormontava la Vergine. Da una zolla di terra collocata al centro del tegame, emergeva infine un favo di miele. Nel Satyricon i differenti servizi della cena (gustatio, fercula et secundae mensae) seguono l’ordine abituale del banchetto romano ma il profluvio di cibo offerto da Trimalcione sembra privo di realismo, prova ne è la quasi assenza di richiami gustativi o olfattivi nel testo petroniano. Al contrario, la vista diviene preponderante. Lo scopo del convivio non sarebbe dunque quello di nutrire ma di mettere in scena un vero e proprio spettacolo, un’esperienza allo stesso tempo estetica e ermeneutica.

OGNI PORTATA è un oggetto teatrale finalizzato a provocare ammirazione. Ciò si manifesta non solo nell’ingegnoso piatto astrologico ma anche nelle carni «trabocchetto»: preceduta da un lampo di drammaticità – in questo caso dei cani della Laconia lanciati all’impazzata intorno alla tavola – un’enorme femmina di cinghiale con in testa un tipico berretto da liberto, viene agghindata con due piccoli cestini di palma intrecciata a pendere dalle zanne: uno è pieno di datteri freschi, l’altro di secchi. Attaccati alle mammelle dell’animale maialini in pasta di mandorle diventano «bomboniere» da donare agli invitati.
Ma la vera sorpresa arriva dal truce taglio praticato da un energumeno con le gambe fasciate e mantello damascato: l’apertura sul fianco del cinghiale libera uno stormo di tordi in volo, subito riacciuffati da uccellatori armati di canne. È questo un passaggio emblematico della Cena, che mostra il senso ludico degli alimenti serviti «a colpi di teatro» da schiavi grotteschi al soldo di un parvenu con l’ossessione di apparire.

IN QUESTO SENSO, la Cena si trasforma in una sfida tra classi, un mezzo «culturale» di potere. Non meno sorprendente è il bottino celato nel maiale che l’improvvido cuoco, punito con pubblica nudità da Trimalcione, aveva dimenticato di sventrare. Dalle viscere squarciate davanti agli ospiti, traboccano salsicce e cotechini mentre durante un’esibizione di omeristi spunta un vitello lesso provvisto di elmo e seguito da uno schiavo mascherato da Aiace, che agitando la spada con occhi «impallati» lo fa a brandelli e infilza i pezzetti sulla punta della lama tra versi recitati in greco e disquisizioni inerenti alla guerra di Troia.

MA IL CULMINE della Cena è costituito da un Priapo «fatto in pasticceria» che si erge su uno strato di focaccine e il cui grembo straripa di frutti di ogni genere e uva. Encolpio e i suoi compagni, allungano le mani su quell’ennesimo peccato di gola, non senza essere investiti da un clamoroso getto d’acqua profumata allo zafferano. Quando – dopo i dessert composti da tordi farciti di uva passa e noci, e mele cotogne sotto sembianze di spinosissimi ricci – si fa largo un’oca obesa con contorno di pesci e uccelli assortiti, la gioia di Trimalcione esplode in un monologo velatamente filosofico (d’altra parte, l’antropologa Florence Dupont è persuasa che l’opera di Petronio sia una parodia del Simposio di Platone): «Possano tutte le mie ricchezze e non la pancia smettere di crescere, se non è vero che per fare tutte queste cose il mio cuoco ha usato solo carne di porco!».
L’enigmatica allusione all’utilizzo di una sola materia da parte del beneamato Dedalo, che provoca sconcerto in Encolpio, permette in realtà di stabilire un’analogia con i Saturnalia. Feste a carattere sfrenato e orgiastico in onore di Saturno, i riti che debuttavano il 17 dicembre consentivano di abolire la distanza fra classi. Il pomposo défilé dei cibi mimici e mimetici ostentati da Trimalcione è la rivoluzione sociale che il popolo dell’Urbs bramava nel segreto del proprio stomaco e che né gli affreschi pompeiani né i resti di cibo rinvenuti tra le ceneri della città vesuviana ci hanno mai raccontato.