* Questo articolo è parte di una campagna (lanciata da Giulia Caminito e Annalisa Camilli) a cui hanno aderito oltre cento scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla

 

Ogni storia è diversa, e di certo la mia esperienza non potrà essere uguale a quella che hanno vissuta, e da come l’hanno vissuta – come se la sono raccontata, se e quando se la sono raccontata – altre donne della mia generazione, e ancor più donne delle generazioni prima e dopo la mia. Ma ci sono anche le somiglianze e a volte le ripetizioni, il ripresentarsi in varie forme di strutture profonde del pensare e del sentire: di quello che per capirci continuiamo a chiamare patriarcato, anche se è una parola e una realtà da indagare meglio nelle complessità e nei mutamenti.
Di storie differenti e consonanti ne ho sentite, da coetanee e da amiche più grandi incontrate nel femminismo, ed erano spesso storie di soprusi e poi di presa di coscienza e di riscatto, storie di un eterno ritorno di crudeltà piccole e grandi, ascoltate nei collettivi e poi in centri antiviolenza sempre sottofinanziati e basati in gran parte sul lavoro volontario. Le istituzioni, che anche ora poco fanno, sono state a lungo del tutto assenti, e alla polizia la violenza domestica sembrava non interessare affatto.

E QUALCHE STORIA l’ho sentita anche da amiche più giovani, arrabbiate e insieme smarrite mentre cercavano di dare senso all’impressione che ci fosse un che di sbagliato nelle richieste totalizzanti del loro compagno, pure così amorose e finanche gratificanti (ah, la pericolosa chimera del «è perché mi vuole bene»). Ci sono poi le storie che ho analizzato e discusso con le e gli studenti in tanti anni di insegnamento, quelle della grande letteratura e soprattutto del grande teatro inglese, naturalmente Shakespeare in primis. Mentre insieme a loro mi facevo prendere e apprezzavo la potenza del linguaggio, l’intelligenza della costruzione drammaturgica, la sottigliezza di indagine psicologica di personaggi che sono diventati archetipi, vedevo anche, e sottolineavo, quanto spesso quei testi fossero segnati da una visione mortificante e distorta del cosiddetto «femminile» e dei rapporti tra uomini e donne – quel che non ero stata in grado di fare prima del femminismo, e che allora nessuno mi aveva guidato a fare.

CALIBANO, diventato simbolo di una giusta urgenza di rivolta al colonialismo; ma anche maschio per il quale lo stupro della donna del nemico (Miranda, figlia dell’oppressore Prospero) è immediata modalità di rivalsa: un copione che ogni guerra rimette in scena. Desdemona, uccisa dagli intrighi di Iago e dalla gelosia di un insicuro Otello, che «ha amato non saggiamente, ma all’eccesso»: la violenza e la perdita della ragione come prove d’amore, il raptus tanto spesso invocato dai titoli di giornale un femminicidio dopo l’altro. Ofelia, che padre e fratello assillano di moniti e consigli, Ofelia che si uccide, stroncata dalla crudeltà psicologica di Amleto, che d’improvviso le nega il suo amore con ingiuste accuse e le intima di rinchiudersi in un convento, proiettando su di lei colpe e paure del suo male di vivere.
Quanto alla mia, di storia, considerate le statistiche su molestie e violenze mi dico che sono stata proprio fortunata: sono ancora viva, non ho avuto amori tossici con umiliazioni minacce botte, non sono stata stuprata.
A dire il vero una volta ci sono andata vicina, mentre facevo l’autostop negli Stati Uniti – non da sola, prima che si dica che me l’ero cercata; eravamo in tre, due ragazze e un ragazzo, ma loro due, in una sosta in un’area di servizio, erano andati a comprare cibi e bevande, e il cortese camionista che ci aveva dato un passaggio decise di provarci pesantemente. Non so come mi venne, ma di getto gli dissi: «Però ho la sifilide». Magari non mi ha creduto, comunque non volle rischiare, e io scesi dal camion e raggiunsi Sonia e Dave. Anche allora ebbi fortuna.

COMUNQUE, LA MIA QUOTA di molestie non mi è mancata. Chiunque sia stata adolescente nella prima metà degli anni Sessanta, ricorderà come una passeggiata potesse trasformarsi in un calvario per le attenzioni non volute di uno o più sfaccendati: quello che ti si affiancava sussurrando oscenità, quello che te le gridava al passaggio, quello che più garbatamente ma non meno insistentemente voleva portarti a prendere un gelato o al cinema. Peggio ancora spostarsi in autobus, strusciamenti e strofinii, mano morta e sguardo altrove, e se protestavi ti facevano passare per bugiarda megalomane con ubbie persecutorie. E i momenti di paura vera, d’inverno quando faceva buio presto e c’era poca gente in giro, e ti capitava quello che invece di sussurrare soltanto allungava le mani.

POI È ARRIVATA la «rivoluzione sessuale», che molti maschi tradussero in «ci dovete stare tutte e sempre»; anche molti compagni durante le occupazioni del Sessantotto, subito pronti a bollarti come piccola borghese moralista e arretrata mentre semplicemente non ti piacevano. Il rifiuto, che incassavano solo dopo molte reiterazioni, li incattiviva, e magari non ti rivolgevano più la parola e cercavano di emarginarti nelle riunioni.
La sensazione prevalente era la rabbia, reazione sana che a volte (non le sere d’inverno, quando mi liberavo con uno spintone e correvo via come una leprotta) mi faceva fermare, togliere una scarpa e gridare allo sfaccendato di turno di andarsene sennò gliela davo in testa. Una sola volta sono rimasta allocchita col vuoto dentro e del tutto incapace di reagire, e capisco nel profondo chi non riesce a difendersi e subisce inerte una violenza sessuale. Avevo poco più di vent’anni e per guadagnare qualcosa davo lezioni di inglese, e un trentenne mingherlino pelato e pervertito si masturbò sotto il tavolo mentre gli spiegavo il comparativo di maggioranza. Adesso quasi mi viene da ridere a raccontarlo ma allora mi sentii ridotta a oggetto e facendo finta di nulla (credo però che si capisse quanto ero turbata) non dissi nemmeno una parola, né seppi poi dirlo a mia madre o a mia sorella o a un’amica; perché mi sentivo sporca, e mi vergognavo, come se in qualche modo fosse stata colpa mia.

MOLTI ANNI DOPO, ormai una vecchia signora, è successo di nuovo; leggevo prendendo il sole in una spiaggia per nudisti a Lanzarote e un ragazzotto mi si è piazzato davanti a masturbarsi un paio di metri più in là – ma questa volta sono volati insulti e un paio di sassi. Perché avere fortuna va bene, ma bisogna anche imparare a non sopportare in silenzio. E forse anche imparare a difendersi, ma davvero; e se tutte le bambine invece di danza o nuoto o tennis facessero un bel corso di arti marziali dai cinque anni in poi?