Quando Alfio prese il 30 e andò a trovare Giorgia
Cosa si muove attorno alle sedi degli aspiranti sindaco: da un palazzo signorile di Torre Argentina a un sottoscala del Laurentino, facendo scalo a San Lorenzo. Ma dov’è Raggi?
Cosa si muove attorno alle sedi degli aspiranti sindaco: da un palazzo signorile di Torre Argentina a un sottoscala del Laurentino, facendo scalo a San Lorenzo. Ma dov’è Raggi?
Questo è un percorso sulla soglia della politica romana, una perlustrazione di quello che avviene davanti ai luoghi in cui i principali candidati hanno deciso di insediare il loro comitato elettorale. Lo sguardo del cronista si ferma sullo zerbino, prima di varcare le stanze delle dichiarazioni ufficiali e delle strategie elettorali.
Cominciamo dal quartier generale di Alfio Marchini. Che è un po’ la Ferrari degli immobili: appartamento signorile al secondo piano in via Nicolo de’ Cesarini, con affaccio sull’area sacra. All’ombra del palazzotto, il viavai dei turisti col naso all’insù e l’ozio dei gatti all’ombra del sito archeologico di Torre Argentina procede come se nulla fosse. Dagli uffici della «sede del cuore», inaugurata a porte chiuse dal candidato «civico» sostenuto da Forza Italia, non appaiono simboli. Nello stesso stabile, ma di certo è soltanto una coincidenza, si trova la sede della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori.
E se per assurdo Marchini volesse raggiungere Giorgia Meloni, sua rivale nel campo del centrodestra, al suo comitato elettorale? E se, sempre più per assurdo, decidesse di impiegare il trasporto pubblico? Dovrebbe attraversare la strada, verso il Teatro Argentina, e aspettare il 30 Express, che costeggia la scalinata del Campidoglio, oltrepassa la Bocca della verità, supera piazzale Ostiense e poi dalla Cristoforo Colombo dirigersi verso il quartiere Laurentino. Qui vicino, a sei chilometri dall’appartamento signorile di Torre Argentina, all’inizio di via Malfante, c’è un seminterrato segnalato da un manifesto 6 metri per 3. È il luogo dal quale vengono diramati gli «allarmi sicurezza» e le «emergenze immigrazione», piatto forte della campagna elettorale di Meloni. Per ironia della sorte qualche settimana fa, una coppia meticcia di ladri scalcinati, un italiano e un algerino, ha provato a sbarcare la giornata portandosi via un televisore dalla sede listata a tricolore: sono stati individuati dalla polizia dopo una breve fuga. Fai pochi metri e ti trovi davanti allo slargo di Piazza dei Navigatori, i cui insediamenti vennero costruiti dal «grande urbanista» (Marchini dixit) Mussolini in occasione dell’Esposizione universale del 1942, Grande Evento che poi non si tenne causa guerra. Da allora, da quell’opera incompiuta che doveva affiancare il palazzone prima destinato ad accogliere i visitatori e poi promesso all’edilizia pubblica, è cominciata una partita a rimpiattino per decidere le sorti dell’area. Ballano almeno 150 mila metri cubi di cemento. Se la contendono il Municipio (che con il presidente uscente Andrea Catarci, di Sel, vorrebbe trasformarla in aree verdi e spazi pubblici), il Comune (che con il commissario Tronca punta a monetizzare, cioè a raccogliere gli oneri di fabbricazione) e soprattutto i signori della rendita per eccellenza: Mezzaroma e Bellavista-Caltagirone.
Ha rilevato Walter Tocci, vicesindaco della prima giunta Rutelli e profondo conoscitore delle vicende romane fin dai tempi del Pci, che la mappa del voto negli ultimi venti anni si è ribaltata. Giusto 35 anni fa, in occasione della campagna elettorale per le elezioni comunali del 1981, il Partito comunista produsse un mediometraggio diretto da Giorgio Ferrara. Due proletari delle periferie coi volti pasoliniani di Franco Citti e Ninetto Davoli uscivano fieri e fischiettanti da un palazzo di periferia, oltrepassavano un cumulo di macerie ricordando i tempi in cui vivevano nelle baracche, e si dirigevano verso il centro in metropolitana. Calpestando i sanpietrini della città storica si imbattevano in un riccastro in decappottabile e lo apostrofavano: «’A Caltagironeeh!». Alla fine raggiungevano il sindaco comunista Luigi Pietroselli, ovviamente a portata di cittadino, seppure ingessato da una espressione un po’ legnosa, da funzionario, che oggi, in tempi di disinvoltura televisiva, fa un po’ sorridere.
Lo spostamento di Citti e Davoli dalle periferie al centro, dalla Roma indecorosa ai palazzi del potere ha rappresentato il motore dello sviluppo ambivalente di una città fatta di abusi e conquiste, cemento e diritti. Un movimento non solo metaforico, che ha riguardato l’esperienza urbana e la vita sociale di molti romani e che oggi pare essersi interrotto. La città è composta da un arcipelago di quartieri e solitudini. I poveri e i marginali raggiungono sempre più raramente la politica, foss’anche per contestarla. Quando avviene, vengono respinti in malo modo. Se ne sono accorti gli occupanti delle case che sono stati salutati a colpi di idrante dal commissario Tronca nella piazza del Campidoglio. Se ne accorgono ogni giorno quelli che dai margini devono muoversi verso il centro, arrancando su un sistema di trasporti carente e sempre gravido di incognite.
Questa impossibilità di movimento si traduce nella geografia del voto. Le nuove mappe raccontano la relazione direttamente proporzionale tra voto ai partiti del centrosinistra e vicinanza al centro della città. Al contrario, i voti per le formazioni di centrodestra e per i 5 Stelle raggiungono il massimo al di fuori del Grande Raccordo Anulare. A mezz’aria, nella periferia storica, si trova Tor Pignattara, quartiere scelto per il comitato di Stefano Fassina. Prima c’era un venditore di infissi, dunque al di là dello stanzone delle conferenze stampa, un corridoio pieno di porte che non conducono in nessun luogo, un campionario di varchi possibili. Fuor di metafora, la sede di via Antonio Tempesta affaccia sulla strada, dove si confondono gli odori delle spezie di un quartiere ad alto tasso migrante e si intravede la vicina gentrification del Pigneto. Checché ne dicano i luogocomunisti da carta patinata, questa zona non è il paradiso di misteriosi radical chic: è tutt’altro che pacificata, presidiata da coreografici poliziotti cavallomuniti, localini e circoli culturali abitano uno spazio vissuto dalla popolazione giovanile, da abitanti storici e nuovi arrivati. Consumatori a basso costo e piccoli imprenditori della ristorazione cercano una collocazione nell’indotto, scusate il termine, dell’«apericena». Cosa sarà all’indomani del voto di questa zona, storicamente roccaforte della sinistra? Uno dei ricercatori che ha fatto parte del gruppo coordinato da Fabrizio Barca, che ha scritto un corposo (e impietoso) dossier sulla condizione del Pd romano, descrive così la situazione: «Una volta, il partito monitorava queste zone strada per strada. Per ogni condominio c’era almeno una persona da contattare, dalla quale ricavare informazioni. Non è più così. Ma molti dirigenti continuano a ritenere che si continuerà a votare come si è sempre fatto».
«La Stazione di Giachetti», così si chiama il comitato elettorale del candidato Pd, si trova forse nel luogo più simbolico. Siamo all’ex dogana dello Scalo di San Lorenzo. Uno spazio immenso di proprietà della Cassa depositi e prestiti, che stava per essere destinato a un centro commerciale. Le proteste del quartiere e la difficile situazione economica hanno fatto optare per una soluzione creativa, intermedia e per certi versi più aggressiva: questo spazio enorme in mezzo alle isole pedonali e alla movida è diventato un contenitore di eventi che strizzano l’occhio alle culture indipendenti e macinano incassi. Quando osservi le file di ragazzi che aspettando di entrare nel divertimentificio della Dogana con 10 euro in mano, ti accorgi che alla città che dagli anni ’90 ha fatto finta di non vedere la sua crisi, raschiando il fondo del barile del commercio, del cemento e del pubblico impiego, adesso non resta che inglobare modelli di produzione culturale nati fuori dal mercato. Nel frattempo, beffa ulteriore, decine e decine di centri sociali e associazioni culturali ricevono lettere di sgombero.
A proposito di partiti liquidi: il comitato elettorale della pentastellata Virginia Raggi, data per sicura al ballottaggio, non è pervenuto. La candidata ha girato spot col gasometro dell’Ostiense sullo sfondo, in mezzo a massaie nei mercatini di quartiere, sotto i gazebo di attivisti ma non ha una base vera e propria. Ha presentato la sua candidatura al circolo della stampa estera, sperando di sfuggire al battibecco dell’italica politica. Ha operato spesso dal Parlamento, col cerchio magico a farle da cintura di sicurezza e qualche critica da parte dei suoi avversari, che l’hanno accusata di aver usato Montecitorio come ufficio, a spese dei contribuenti. Raggi è dappertutto e in nessun luogo. Questa è la sua forza e la sua debolezza.
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