Il minuetto delle parole dal sen fuggite, delle gaffe clamorose e delle precisazioni improbabili chiude in bruttezza la campagna elettorale. Tempeste in bicchieri d’acqua se si è trattato davvero solo di lingue non tenute a freno. Qualcosa di molto peggio se il monito di Ursula von der Leyen, «vedremo le elezioni italiane: se le cose andranno in una direzione difficile abbiamo degli strumenti come per Ungheria e Polonia», è stato rivelatore. O se l’arringa in difesa di Putin pronunciata da Berlusconi da Vespa va intesa come squarcio sui veri umori non solo dell’anziano Cavaliere ma anche di una parte significativa del centrodestra.

Per il Salvini in difficoltà l’ingerenza indebita della presidente è un invito a nozze, un’occasione d’oro. Convoca un sit-in di fronte alla rappresentanza della Commissione a Roma, annuncia una improbabilissima raccolta di firme per una mozione di censura all’Europarlamento, pretende che von der Leyen «si scusi oppure ne chiediamo le dimissioni». Il portavoce della Commissione non si scusa ma grida all’equivoco: «Non è intervenuta nelle elezioni italiane. Ha fatto riferimento a procedure in corso contro altri Paesi mettendo in evidenza il ruolo di guardiana dei trattati». Un giro di parole che conferma più di quanto non smentisca. L’Italia è già la sorvegliata speciale d’Europa per via del debito. Lo diventerà ancora di più se, venuta meno la garanzia Draghi, si insedierà un governo di destra e la sorveglianza si allargherà così all’area dei diritti. Anche se, per riparare alla gaffe, la commissione sparge un po’ di miele: «Lavoreremo con qualsiasi governo che vorrà lavorare con la Commissione».

In Italia tutti i leghisti fanno coro uno più indignato dell’altro ed è essenzialmente insperata propaganda elettorale. Ma a criticare la presidente, certo con toni meno striduli, sono un po’ tutti da Renzi a Calenda all’ex presidente dell’Europarlamento Tajani. Persino Letta ammette che la frasetta incriminata «crea casino» pur certo che la presidente «chiarirà». A chiarimento avvenuto si scaglia contro Salvini: «Gravissime» sono le sue parole e le sue richieste di dimissioni «per un equivoco».

Repertorio elettorale: ciascuno fa la sua parte ma quella di Giorgia Meloni è davvero scomoda. Si può immaginare come commenterebbe la grave lesione alla sovranità nazionale se non si sentisse sulla porta di palazzo Chigi. Però ci si sente e il suo commento è un capolavoro di felpatezza da vecchia Dc al suo peggio: «Sarebbe stata una cosa fuori di misura ma la presidente ha già mandato una nota per correggere parole che sono state lette come un’ingerenza. La responsabilità è della sinistra italiana, andata in giro per il mondo a sputare sull’Italia». La leader tricolore sa che, se vincerà le elezioni, con la Commissione dovrà provare ad andare d’accordo. Ieri ha constatato quanto le sarà difficile e quanto poco la aiuteranno su quella via gli alleati.

Da questo punto di vista il caso Berlusconi è a sua volta un segnale d’allarme. Anche lui ieri ha corretto e precisato a costo di arrampicarsi sulla parete più liscia. Quando ha detto che Putin voleva solo occupare Kiev per un paio di settimane, il tempo di mettere al governo al posto di Zelensky «persone per bene», non stava certo illustrando il suo pensiero: «Riferivo parole d’altri. Facevo il cronista». Letta si scatena: «Una vergogna». Calenda ravvede gli estremi della «tragedia». Zelensky si fa sentire: «Si fida dell’assassino Putin?». La destra, molto più che solo un po’ imbarazzata, finge di credere alla versione di Berlusconi e fa lo stesso il Ppe: «La nostra posizione di sostegno all’Ucraina è cristallina». Al padre fondatore della destra qualcosa in nome dell’età va perdonata. Solo che non si tratta solo di questo e la candidata premier lo sa: sotto pelle le divisioni su guerra e sanzioni sono molto meno effimere e superficiali.

Quanto a divisioni, ce ne sono altre, meno internazionali, altrettanto minacciose. Dal palco di piazza del Popolo una Meloni particolarmente aggressiva ha di fatto annunciato che il presidenzialismo si farà con o senza la controparte, se del caso con una secca imposizione della sua maggioranza. Il primo a frenarla è Salvini: «Le riforme della Costituzione fatte a maggioranza non vanno lontano. Bisogna coinvolgere non solo il Parlamento ma l’intero Paese».

Era già chiaro e ora lo è anche di più: tra le divisioni della sua maggioranza, la ringhiosità di Bruxelles e la crisi che morde, se Giorgia Meloni entrerà a palazzo Chigi la aspetta un calvario.