Sarà la stanchezza nel discutere ancora di riforme istituzionali, ma sta di fatto che il dibattito pubblico su questi temi è decisamente carente. E le ipotesi sono due: o la questione non appassiona più oppure non è ancora chiaro il rischio che le riforme governative comportano per la nostra democrazia. Credo che entrambe contengano un fondo di verità, ma la seconda resta più utile della prima: perché se ne capiamo la portata (dei rischi), magari riusciamo a scrollarci di dosso il torpore.

Veniamo allora ai rischi di queste riforme istituzionali. Innanzitutto, sbarazziamoci dell’argomento per cui si tratterebbe soltanto di qualche riformetta, con pochi ritocchi alla Costituzione vigente (il disegno di legge sul premierato) e un’attuazione ordinaria dell’autonomia differenziata. Al di là della propaganda governativa, siamo di fronte a riforme incisive che stravolgono, rispettivamente, la forma di governo e la forma di Stato. Per quanto riguarda il premierato, il disegno di fondo è chiaro: elezione diretta del capo dell’esecutivo, per di più con premio di maggioranza inserito in Costituzione a blindare il governo e il suo leader. Il che comporta un mutamento della forma di governo perché della sovranità parlamentare non resta più nulla e tutto viene deciso, a cascata, dall’elezione diretta del premier. Non è un caso che questo assetto istituzionale sia un unicum tra i sistemi democratici. Proprio perché democratici, questi sistemi mirano alla separazione equilibrata dei poteri, mentre la riforma in cantiere va nella direzione opposta, quella della concentrazione squilibrata del potere in mano a una persona. Se è vero che le Costituzioni servono a frenare e bilanciare tra loro i poteri, con il progetto governativo siamo di fronte a una riforma costituzionale anticostituzionale, che sbatte contro i principi del costituzionalismo e abbatte tutti i potenziali contropoteri (dal ruolo del capo dello Stato al parlamento fino agli altri organi di garanzia).

Ma non finisce qui. Perché il treno delle riforme istituzionali viaggia ancora più spedito sull’altro binario, quello dell’autonomia differenziata. I costituenti avevano disegnato un regionalismo temperato, solidaristico, centrato sull’unità e indivisibilità della Repubblica. Invece, al di là del dibattito inconcludente sugli standard dei diritti fondamentali da garantire da Nord a Sud, la riforma di Calderoli, che di “porcate” istituzionali è gran maestro, segue tutta un’altra rotta. Per un verso, pone le premesse per una scriteriata cessione di funzioni e risorse che finirebbe per fare dell’unità d’Italia uno spezzatino di staterelli in competizione tra loro. Per l’altro, contribuisce a togliere risorse o a depotenziare l’azione di quella Repubblica che, secondo il dettato costituzionale, dovrebbe impegnarsi a rendere un po’ meno diseguale un paese dove i divari – economici, sociali e geografici – sono in crescita da quarant’anni. A questo punto i costituzionalisti identificherebbero – e alcuni lo hanno fatto – diversi profili di illegittimità costituzionale contenuti nel testo di Calderoli. Ma è utile essere ancora più netti: l’autonomia differenziata disegnata da questo governo è programmaticamente incostituzionale, almeno fino a quando non verranno smantellati quei principi di eguaglianza e solidarietà inscritti nella nostra Costituzione.

Basterebbe già questo pacchetto di riforme anti- e incostituzionali per spingere a una mobilitazione in difesa dalla Costituzione. Ma al governo vogliono fare le cose in grande, e lo smantellamento delle regole istituzionali è condito da un controllo sempre più opprimente sull’opinione pubblica: da un lato, manganellando senza fare neanche troppa filosofia le voci dissenzienti e, dall’altro, dando alla voce del padrone governativo uno spazio impari nella tv pubblica. Di fronte a tutto questo, lo spettacolo delle opposizioni è deprimente: una parte battibecca sul sesso degli angeli (vedi alla voce “campo largo”) e un’altra si illude di poter far rientrare nei ranghi costituzionali i progetti di una destra in deficit di liberalismo. E allora che fare? Tante cose, ma da una bisogna cominciare: far diventare il 25 aprile, domani, l’inizio di una mobilitazione popolare contro ogni possibile deriva autoritaria. Col manifesto in mano, ci vediamo a Milano.