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Primi strappi istituzionali di un «rave» di governo

Rave party in un capannone abbandonato alle porte di Modena foto LaPresseForze di polizia pronte a sgomberare il rave party di Modena – LaPresse

Pugno duro Emblematico il decreto rave (che si apre ora a cambiamenti): libertà di manifestazione e ancor più di riunione a rischio, pene esorbitanti e intercettazioni a strascico

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

Il governo Meloni ha avuto un avvio fragorosamente identitario e securitario. Decreto rave, navi Ong e migranti, ergastolo ostativo, tetto al contante, reddito di cittadinanza, flat tax, pensioni, trivelle, restrizioni covid smantellate.

E ancora: i medici no-vax di nuovo in corsia, bollettino pandemico settimanale. Un rave di governo, su non poche note di una musica di destra reazionaria e illiberale.

Si è inteso dare il messaggio inequivoco che a Palazzo Chigi c’è un nuovo inquilino. In Europa nessuno si è lasciato impressionare. La disponibilità all’ascolto acquisita da Meloni è un niente vestito di cortesia. Ma anche in Italia l’iperattivismo di governo non va oltre il testimoniare l’esistenza in vita a fronte della difficoltà o impossibilità di incidere sulle emergenze e i problemi che contano davvero.

Il decreto rave è emblematico. Superfluo, e giustamente sepolto dalle critiche. Nessuna necessità e urgenza, contenuti eterogenei, fattispecie indeterminata, libertà di manifestazione e ancor più di riunione a rischio, pene esorbitanti, intercettazioni a strascico. Si apre ora a cambiamenti. È bene, perché il decreto (162/2022) sarebbe a grave rischio in un giudizio di costituzionalità.
Ma qui la domanda: perché? Al ministero dell’interno di sicuro si conosce la giurisprudenza costituzionale. È ragionevole supporre che lo stesso ministro – un ex prefetto – ne sia quanto meno informato. Possibile mai che si porti consapevolmente in consiglio dei ministri un decreto-legge candidato a una dichiarazione di incostituzionalità probabile, se non certa? Si stenta a credere all’ignoranza o all’insipienza politica.

Il messaggio vuole essere che «la pacchia è finita», come dice Meloni. Ma ci sono altri risvolti. Il capo dello Stato avrebbe potuto rifiutare l’emanazione del decreto per «manifesta incostituzionalità». Non è credibile che a Palazzo Chigi nessuno l’abbia pensato, o che sul Colle nessuno abbia saputo o capito. Piuttosto, assumiamo che ci sia stata una interlocuzione riservata. Che Palazzo Chigi abbia voluto procedere comunque, rimanendo a Mattarella la scelta se rifiutare la firma e aprire un conflitto istituzionale. E che il presidente Mattarella abbia preferito evitarlo, in specie su uno dei primi atti del governo.

Forse si è voluto sottolineare il cambio di inquilino a Palazzo Chigi anche a Mattarella. Da ultimo ha avuto parole chiare – che si possono o meno condividere – sulla collocazione internazionale del paese, sulla guerra in Ucraina, sul rapporto con i partner europei. Una moral suasion che non si traduce in atti formali, ma pesa nel paese. Forse si intravede nel decreto una intimazione al Quirinale di prudenza per il futuro. Un’actio finium regundorum, avrebbe detto un antico giurista. Fantapolitica? Forse. Ma secondo una ben nota saggezza a pensar male si fa peccato, ma s’indovina.

Mentre una questione – come il rave – che non meriterebbe tanto rilievo viene posta in primo piano, un’altra che invece lo meriterebbe rimane nell’ombra. Il ministro Calderoli ha anticipato e condiviso con i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna una bozza di legge di attuazione dell’art. 116.3 Cost. sull’autonomia differenziata. È una versione peggiorata delle leggi-quadro Boccia/Gelmini, che dovrebbe giungere in consiglio dei ministri tra qualche settimana.

Calderoli non è persona da fake news, e le turbolenze nella Lega suggeriscono che diversamente dal passato il treno non si fermerà. Sul merito torneremo. Intanto però ci chiediamo cosa ne penserà Meloni. Nel 2014 firmava l’AC 1953: una proposta di legge costituzionale che, assumendo in premessa il fallimento del regionalismo, riscriveva in modo radicale il Titolo V, in specie sopprimendo l’art. 116 e l’autonomia differenziata. Cosa in sé buona e giusta. Io stesso proponevo nel 2003 con l’AS 2507 la soppressione dell’art. 116.3. Dopo quasi venti anni rimango convinto che vada rivisitato a fondo.

Meloni sembra invece aver invertito la marcia, e forse Palazzo Chigi val bene un’abiura. Se però avesse dei dubbi stia attenta. Calderoli sull’autonomia è fedele alla consegna leghista e si definisce un caterpillar (La Stampa, 5 novembre). Nel caso, cerchi la protezione di ministri di peso, come ad esempio Crosetto.

Vogliamo sperare che la grande manifestazione di Roma per la pace sia un passo sulla strada che condurrà il popolo italiano a scioglierlo, questo rumoroso rave di governo. Ovviamente secondo le norme vigenti.

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