Vanni Santoni è autore di vari romanzi, l’ultimo dei quali è La verità su tutto (Mondadori 2021). Nel 2015 ha pubblicato per Laterza Muro di casse, che racconta la scena rave.

La stretta repressiva fermerà i «free party»?

No. Basta guardare quanto successo in Inghilterra con il Public order and justice act del 1994 o in Francia con la legge Mariani del 2001. In entrambi i casi dopo emergenze solo a carattere politico-mediatico, neanche lì c’erano stati incidenti, sono state approvate leggi speciali. Ma i free party sono continuati. In Francia il 2022 è stato l’anno con più rave nella storia recente del paese: questo tipo di misure non hanno un potenziale preventivo, fanno solo aumentare i costi per le casse pubbliche, dato che l’azione repressiva costa, e intasano i tribunali di migliaia di denunce. Con qualche malcapitato che paga per tutti.

È vero, come dice Meloni, che in Italia vengono ragazzi da tutta Europa per organizzare rave perché lo Stato è permissivo?

In Italia ci sono meno rave che in Francia o Repubblica Ceca. Siamo sui numeri inglesi. Il punto è diverso: tra le varie crew di organizzatori ci sono molte connessioni. Per cui capita che francesi, cechi o austriaci suonino in Italia. E viceversa. È solo un sintomo dell’internazionalità della cultura rave.

Negli altri paesi le reazioni sono dello stesso tipo? Per esempio quest’estate in Spagna si è svolto lo «Space Travel» che ad agosto 2021 si era tenuto a Valentano sollevando un vespaio di polemiche.

Non è del tutto esatto. In Spagna si è svolto un evento chiamato «Fighting Spirit» a cui erano presenti anche alcune crew che avevano partecipato allo «Space Travel». Comunque le reazioni sono state completamente differenti. Forse perché lì c’è una maggiore cultura della movida o del «botellon». Anche nelle semplici feste di paese le strade sono piene di gente che beve e ascolta musica. Questi comportamenti non sono ancora stati criminalizzati. Il secondo fattore è la relativa giovinezza della scena rave iberica. In Francia e Inghilterra, invece, i rave sono arrivati dagli albori e hanno subito campagne di criminalizzazione. Il primo free party è considerato quello di Castelmorton, a sud-ovest di Birmingham, nel 1992. Nel 1995-96 in Francia, Repubblica Ceca e Italia c’erano feste analoghe. In Italia durante tutta la seconda metà degli anni ’90 e nella prima dei ’00 ci sono state centinaia di rave enormi, ma ancora non erano nel mirino. Quando la stampa ci arrivava aveva una sorta di curiosità. Con le forze dell’ordine in genere le trattative erano serene, senza casi mediatici o giri di vite repressivi.

Ultimamente invece?

Il caso di Valentano è emblematico. Sono state confezionate vere e proprie fake news. Per esempio si è scoperto che il ragazzo annegato nel lago non era stato al teknival. Era un apneista dilettante che ha fatto un tuffo, purtroppo fatale. La stampa locale lo ha subito attribuito al rave e quella nazionale ha ripreso la notizia senza fact checking. È interessante che anche oggi, quando vengono proposte strette a livello legale partendo da un evento in cui non c’è stato alcun incidente, come quello di Modena, si rimandi alle false notizie del 2021. Nonostante siano state smentite.

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Come spiegheresti cos’è un rave a chi non ci è mai stato?

Un raduno musicale semi-spontaneo che si svolge in un luogo abbandonato o in una landa brulla, dove le persone si trovano per ballare in modo continuativo musica elettronica.

I rave sono stati criticati per il consumo di sostanze e l’impatto ambientale. Ci sono state evoluzioni negli ultimi anni?

Al teknival di Valentano stupirono le foto della raccolta differenziata e la relativa pulizia dei terreni dopo l’evento. Quella ambientale è questione usata spesso in modo strumentale. Generalmente i raver vanno in edifici abbandonati che sono per se stessi «rifiuti»: si parla più di qualche bottiglia di plastica non raccolta che di enormi strutture di cemento e a volte amianto lasciate lì perché non servono più.

E le sostanze stupefacenti?

La rivendicazione del consumo è senz’altro un elemento di scandalo: per certi versi un free party è anche un evento anti-probizionista, sebbene non sia la questione centrale. Certo non siamo ingenui e sappiamo che il consumo di droghe nella nostra società è endemico, dalle discoteche alle strade, ma nel rave è più visibile e questo punge i moralisti. La questione andrebbe affrontata in altro modo, per esempio potenziando le strutture di riduzione del danno, se il punto è la salute pubblica.

Queste feste hanno un significato politico?

Il free party è implicitamente politico, anche se non tutti i partecipanti ne sono consapevoli dato che, quando si diffonde la notizia, ci va anche tanta gente che vuole solo ballare. Nell’occupazione di un’industria abbandonata c’è una critica alla società industriale in crisi che abbandona le proprie vestigia; la durata di più giorni attacca la distinzione tra momento del lavoro e dell’intrattenimento, rifiutando il controllo del tempo e il fatto che ci si possa divertire solo per poche ore; la gratuità mette in discussione il divertimentificio a pagamento. Nel dna dei rave ci sono varie dimensioni: la psichedelia e il nomadismo degli hippie; un elemento nichilista, «no future» ma anche «do it yourself», che viene dal punk; la cultura dei soundsystem, l’idea di portare la musica in luoghi pubblici, che viene dalla Giamaica dove i poveri, rifiutati dai club, portarono in strada la pista da ballo. Il quarto elemento è la cultura dei club, della techno nata a Detroit, dove comunque si suonava in locali col biglietto di ingresso. Il free party ha liberato la techno per farla risuonare in spazi più vasti e liberi.