Stavolta dobbiamo riconoscerlo, il diritto internazionale ha fatto la sua parte e, nonostante sia stato devastato in questi ultimi trenta anni da tante, troppe guerre fuori da ogni diritto dell’Occidente proprio in Medio Oriente, esiste ancora e prova ad avere un ruolo “a caldo” mentre il massacro di Gaza continua e raggiunge la cifra di 39mila morti e decine e decine di migliaia di feriti, per la maggiora parte civili inermi, donne, bambini, anziani, con la devastazione di ogni struttura umanitaria e di ogni risorsa vitale.
Così abbiamo avuto la decisione del 26 gennaio scorso della Corte di giustizia internazionale delle Nazioni unite, la massima assise di giustizia al mondo, di incriminare lo Stato d’Israele per «plausibile genocidio».

Poi la decisione della Procura della Corte penale internazionale dell’Aja del 21 maggio di emettere un mandato di arresto per Netanyahu e per il ministro della difesa Gallant per «crimini di guerra e crimini contro l’umanità» – stesso mandato d’arresto per Yahya Sinwar e altri tre leader di Hamas. Ecco ora l’atto d’accusa senza se e senza ma della sentenza “consultiva” della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni unite, richiesta dall’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre 2022 in merito alla «presenza israeliana nei territori palestinesi»: «Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati», sostiene la Corte.

Precisando stavolta che anche la Striscia di Gaza è da considerare territorio occupato perché confini – sarebbe meglio dire margini sotto chiave – , sicurezza ed economia sono nelle mani d’Israele. Una illegalità – ricordava Chiara Cruciati ieri sul manifesto – che dura da 57 anni che hanno cancellato tra l’altro due Risoluzioni storiche delle Nazioni unite che imponevano a Israele il ritiro dall’occupazione.

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Il ritiro non c’è stato ma in questi più di 50 anni sono andate in onda nuove violenze, l’annessione di fatto, l’istituzione di un regime di apartheid, la costruzione del Muro di separazione, nuove colonie con la cacciata dei palestinesi diventati profughi a casa loro o in altri paesi mediorientali, dove sono stati raggiunti da tante altre stragi come quella in Libano di Sabra e Shatila, accordi di pace subito azzerati da una parte sola con l’uccisione del premier israeliano Rabin nel 1995 ad opera di un integralista ebreo, furto delle risorse primarie, dall’acqua alle colture agricole della terra. Per questa verità, storica e politica, si sono spese migliaia di esistenze e generazioni di palestinesi che sopravvivono – divisi e abbandonati dai “grandi” del mondo e dalle leadership mediorientali – senza diritti sulla loro terra negata. Ma anche le Ong dei diritti umani, come tanti pacifisti nel mondo e in Israele stessa, oltre che la sinistra delle comunità ebraiche nel mondo.

Un atto d’accusa durissimo quello della Corte, ma anche un grido d’allarme nell’intercalare, il monito «il prima possibile», vale a dire «prima che sia troppo tardi». Perché i messaggi che la sentenza invia, a chi vuole intendere, sono tragicamente chiari e illuminano insieme le zone d’ombra del quotidiano massacro sanguinoso in corso, a Gaza e in Cisgiordania.
In primo luogo, che persistendo l’occupazione illegale, fatta di massicci insediamenti militari e di altrettanti mega-nuovi insediamenti colonici, non è possibile alcuno Stato di Palestina: c’è un solo Stato, Israele, armato fino ai denti ed occupante dell’altro che non viene riconosciuto.

In secondo luogo che il 7 ottobre 2023 – l’attacco criminale e la strage di Hamas di civili inermi e di militari con la cattura di ostaggi – va, come fu per la dichiarazione del segretario dell’Onu Guterres, collocato nel contesto storico della decennale occupazione israeliana dei territori palestinesi. Va dunque non certo giustificato ma collocato (usiamo due verbi con due funzioni diverse se non opposte) infine, che in assenza di una risposta «il prima possibile» della comunità internazionale, degli Stati, dell’Unione europea, dei parlamenti per sanzioni politiche ed economiche contro il governo israeliano, ma anche delle iniziative dal basso di mobilitazione e boicottaggio, dei campi larghi o stretti che siano delle residue sinistre, dei media e del giornalismo (p. s. Il Corriere della Sera relegava ieri la notizia della Corte Onu a pagina 13 in taglio basso con 40 righe) – l’interminabile litania di vittime che scorre ogni giorno davanti ai nostri occhi e le privazioni a cui sono sottoposti gli esseri umani che resistono, dentro gli occhi dei bambini tra le macerie in cerca di acqua e cibo, occhi che non dimenticano, saranno foriere di nuovi 7 ottobre, perché lì non c’è pace ma una condizione di guerra e oppressione permanente di un intero popolo.

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Basta con i due pesi e due misure: se per i territori occupati dalla Russia nel Donbass ci si mobilita in Alleanza con l’invio di miliardi in armi rischiando la Terza guerra mondiale, com’è possibile ormai tacere o peggio cancellare l’infamia della illegalità dell’occupazione militare dei territori palestinesi?

Alla sentenza della Corte di giustizia internazionale dell’Onu così ha risposto il premier israeliano Benjamin Netanyahu: «Il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria. Nessuna falsa decisione dell’Aja – ha aggiunto – distorcerà questa verità storica, così come non si può contestare la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria».

Mai parole così integraliste, razziste, degne del fascista suo ministro Ben Gvir, messianiche, lontane da una visione laica sono state pronunciate a nostra memoria da un premier dello Stato d’Israele: i palestinesi semplicemente non esistono. Eppure sarà il “colono” Netanyahu ad essere invitato tra pochi giorni, il 24 luglio, a parlare a camere riunite negli Stati uniti, su invito bipartisan, democratico e repubblicano – meglio dire ormai di Trump e del Maga – per enunciare la sua strategia politica e militare. Ancora una volta come “Bibi” ha sempre fatto nella sua storia, influirà non poco sul destino della campagna elettorale Usa già ampiamente compromessa dalle difficoltà di Biden, che pure su Gaza ha vacillato condannando la vendetta criminale israeliana ma inviando armi a Tel Aviv, e soprattutto da Santo Trump che annuncia appeasement con il neo-zar Putin sull’Ucraina, ma soffia già nuovi venti di guerra in Medio Oriente e in Asia.