Benché eletta nel consiglio provinciale di Roma all’età di 21 anni (26 anni fa), vicepresidente della camera a 29, ministra a 31 e da quasi due anni presidente del consiglio, Giorgia Meloni fa ancora fatica a orientarsi nelle istituzioni democratiche. Se ne può dedurre che viva in modo tutto suo. In questa realtà parallela, o rovesciata, i giornalisti autori di un’inchiesta sotto copertura diventano spie del regime infiltrate nei partiti, cosa mai vista «nella storia della Repubblica italiana» della quale la leader del partito infiltrato chiede conto al presidente della Repubblica (o regime) in questione. Nel fantastico mondo di Giorgia – appassionata di fantasy – FdI non è, come tutti credono o fingono di credere da questa parte dell’universo, il partito che ha vinto le elezioni.

E la cui leader ha ricevuto dal presidente l’incarico di formare il governo. Ma una forza di opposizione ridotta alla clandestinità che il regime tenta di reprimere e annientare infiltrandola con agenti della polizia politica mascherati da giornalisti che si fingono affiliati all’organizzazione. Una trama fitta e intricata dove gli eroi non sono elfi o draghetti ma giovani (e anche meno giovani) militanti che per evitare la persecuzione sono costretti a svolgere di nascosto le loro attività: inni al duce, cori nazisti, esaltazione del razzismo e dell’antisemitismo uniti alla speranza, un giorno, di vedere «impalati» gli esponenti del regime.

Per salvare l’organizzazione, la leader è costretta a sacrificare i militanti scoperti dai servizi segreti della dittatura allontanandoli e dissociandosi pubblicamente da loro: «Chi ha sentimenti razzisti, antisemiti o nostalgici ha sbagliato casa, questi sentimenti sono incompatibili con Fratelli d’Italia». Prima ancora di fare il suo ingresso – ma solo da questa parte dell’universo – a palazzo Chigi, la stessa Meloni chiarì: «Ribadisco che nel nostro movimento non c’è alcuno spazio per atteggiamenti ambigui sull’antisemitismo e sul razzismo, per il paranazismo da operetta o per rapporti con ambienti dai quali siamo distanti anni luce».

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Si riferiva a un’altra inchiesta di Fanpage, quella sulla Lobby nera che vedeva volteggiare in un ambientino stile «paranazismo da operetta» il capodelegazione di Fdi all’europarlamento, Fidanza. Curiosamente, la formula usata ora anche dal responsabile organizzazione di Fdi Giovanni Donzelli: «Ribadiamo: nessuno spazio per razzisti, estremisti e antisemiti». Si tratta dello stesso Donzelli che per giustificare la foto dell’attuale (in questa parte dell’universo) viceministro delle infrastrutture Bignami immortalato da un agente infiltrato mentre era vestito da nazista, confessò: «Io una volta a carnevale mi sono vestito da Minnie».

La morale della favoletta meloniana, tra il portavoce di un ministro costretto a dimettersi perché amante dell’«operetta», lo stesso ministro che difende la purezza italica dalla «sostituzione etnica» e la versione di La Russa sui «semipensionati» uccisi a via Rasella, è che Meloni non è banalmente vittima della sindrome dell’underdog che la porta a comportarsi come se fosse ancora all’opposizione. È la leader di un partito che non ha nessuna intenzione di recidere le sue radici e proprio per questo, da presidente del consiglio, intende rovesciare il regime, pardon, riscrivere la costituzione. E ribaltare l’universo.