Alle 5.30 del mattino suona la sveglia: pantalone, maglietta, scarpe e macchina fotografica, lo stretto indispensabile per accompagnare i pastori a far pascolare le pecore. Inizia così la giornata di un attivista a Masafer Yatta. Tra le rocce bianche e le prime luci dell’alba, nel villaggio di At Tuwani, si sentono solo i passi del pastore e dei due attivisti che lo seguono. Le erbe secche sotto ai piedi rompono l’apparente quiete, fino a giungere all’avamposto israeliano che occupa il giardino della famiglia Huraini.

«Mediterranea Saving Humans ha scelto di appoggiare la resistenza nonviolenta a Masafer Yatta perché i valori di autodeterminazione e libertà di movimento espressi qui, sono anche i nostri. Questa, secondo noi, è una lotta contro i confini», spiega Serena Sardi, del direttivo dell’ong italiana Mediterranea, in missione da giugno nella Cisgiordania occupata.

«È LA MIA PRIMA VOLTA in Palestina, solo ora mi rendo conto che la cosa più difficile da trasmettere a una persona che non c’è mai stata è quanti confini ci siano, quanto invisibili siano ma quanto violento e profondo sia l’impatto che hanno nella vita quotidiana di ogni singolo palestinese. Il confine può essere la linea immaginaria che separa il pezzo di terra in cui un pastore palestinese può far pascolare il gregge, da quello che è stato deliberatamente preso dai coloni e non è più percorribile», conclude chinandosi a terra per annaffiare le piante di vite piantate qualche giorno prima. «Meglio dargli tanta acqua – le raccomanda Rebecca Fantu, volontaria di Operazione Colomba, progetto attivo da vent’anni in quest’area – Non sappiamo quando potremo tornare qui».

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L’imprevedibilità della vita qui si traduce in un perenne stato di paura: sono i coloni – spesso scortati dall’esercito israeliano – a decidere se Hafez Huraini, leader della resistenza non violenta nella regione, può accedere al suo giardino, quando gli attivisti possono aiutarlo a piantare o quando sono costretti a difendere le piantagioni. La violenza potrebbe irrompere in qualsiasi momento. «Arrivano qui in gruppo, spesso armati come l’esercito, cominciano a intimidirci, e poi ci attaccano – spiega Rebecca – Ultimamente anche noi internazionali siamo dei target».

DOPO IL 7 OTTOBRE, e in particolar modo nelle ultime settimane, a Masafer Yatta si è registrato un aumento della violenza dei coloni verso gli attivisti internazionali. Nella notte tra il 3 e il 4 luglio, un attivista italiano della stessa ong è stato picchiato e preso a bastonate da una cinquantina di coloni israeliani nel villaggio palestinese di Um Al Fagara. «Da ottobre operare qui è diventato sempre più difficile, abbiamo dovuto interrompere l’attività di accompagnamento dei bambini a scuola e rinunciare alla routine che da anni abbiamo su questo pezzo di terra. Le giornate sono diventate imprevedibili, con il passare dei mesi ci siamo resi conto che se la presenza internazionale prima era un deterrente, adesso non basta più, non ha più lo stesso valore. I coloni nutrono un odio profondo sia nei confronti degli attivisti internazionali, che degli israeliani, tutti siamo dei target per i coloni e per l’esercito», continua Rebecca rientrando nella casa che ospita i volontari.

«Questo però ci rende coscienti che le forze di occupazione vogliono fare in modo che nessuno veda, che non ci sia nessun testimone della loro violazione dei diritti umani. Per questo continuiamo a stare qui, ci rendiamo conto di quanto sia importante testimoniare e stare accanto alle persone».

Dentro casa il tempo si ferma, dopo quattro ore di accompagnamento al pastore è il momento di riposarsi. Rebecca entra in camera da letto. Serena fuma una sigaretta seduta sul divano. «Sumud» si legge dietro le sue spalle, in un grande poster rosso e blu con il volto della nonna della famiglia Huraini, che educò un’intera generazione alla nonviolenza. La calma dura poco. Il telefono squilla, Valerio di Mediterranea e Alex di Operazione Colomba avvisano il resto del gruppo: «Stiamo scappando da un gruppo di coloni che ci ha aggrediti con i cani». Stavano accompagnando due pastori, raccontano, quando una decina di coloni li ha inseguiti con dei cani sciolti. Scarpe, macchina fotografica e si sale in macchina. Valerio e Alex sono in mezzo alla strada, salgono e tirano un sospiro di sollievo: «Non potevamo che scappare», dicono con amarezza.

A CASA è pronta la cena, si mangia con Hafez, un piatto di pasta e una zuppa. La vita sembra di nuovo scorrere lentamente, Serena e Rebecca vanno a dormire, il telefono acceso a destra del cuscino e la macchina fotografica carica a sinistra.