Due giorni fa la Corte internazionale di giustizia, la cui opinione era stata sollecitata alla fine del 2022 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è arrivata a una conclusione che non poteva essere più forte e chiara: l’occupazione e l’annessione da parte di Israele dei territori palestinesi sono illegali e le leggi e prassi discriminatorie israeliane contro i palestinesi violano il divieto di segregazione razziale e di apartheid. Si tratta di una rivincita storica per i diritti dei palestinesi, vittime di decenni di crudeltà e di sistematiche violazioni dei diritti umani derivanti dall’illegale occupazione israeliana.

L’occupazione è un elemento fondamentale del sistema di apartheid con cui Israele domina e opprime i palestinesi e che è causa di sofferenze di massa: i palestinesi assistono quotidianamente alla demolizione delle loro case e all’esproprio delle loro terre per la costruzione e l’espansione degli insediamenti e subiscono soffocanti restrizioni che interferiscono in ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalla separazione dei nuclei familiari alla limitazione della libertà di movimento fino al diniego dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali.

Dall’autorevolezza dell’opinione della Corte dovrebbero derivare (uso il condizionale, data l’immediata reazione di Israele: nulla di sorprendente, considerando la totale mancata applicazione delle misure cautelari ordinate dalla stessa Corte per evitare il genocidio a Gaza) il ritiro dai Territori palestinesi occupati, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est; la fine del dominio su ogni aspetto della vita dei palestinesi; la cessione del controllo delle frontiere, delle risorse naturali, dello spazio aereo e delle acque territoriali dei territori occupati; la fine del blocco illegale di Gaza e il diritto dei palestinesi di muoversi liberamente tra Gaza e la Cisgiordania.

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Starà allora agli stati, soprattutto a quelli alleati di Israele, intraprendere rapidamente azioni inequivoche per assicurare che Israele ponga fine all’occupazione, a partire dall’immediato stop all’espansione degli insediamenti e all’annessione di territori palestinesi e dallo smantellamento del brutale sistema di apartheid contro i palestinesi. Ricordiamo bene le conseguenze della mancata azione della comunità internazionale rispetto all’opinione della Corte nel 2004 sulla costruzione del muro di separazione all’interno dei Territori occupati: Israele venne incoraggiato a sfidare il diritto internazionale e a rafforzare la sua impunità. Non dev’esserci una seconda volta.

Merita soffermarsi, infine, sulla menzione da parte dei giudici della Corte della parola apartheid: cioè di quel sistema israeliano di oppressione e dominazione ai danni dei palestinesi, tenuto in piedi e rafforzato dalla frammentazione territoriale, dalla segregazione e dal controllo, dalla confisca di terreni e proprietà e dalla negazione, tra gli altri, dei diritti economici e sociali.

L’opinione della Corte è il sigillo giuridico ai rapporti di organizzazioni non governative internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International e dei gruppi israeliani per i diritti umani come Yesh Din e B’Tselem. A un paese avviato verso un sistema di apartheid in passato si erano riferiti, preoccupati, gli ex primi ministri Olmert e Barak, l’ex direttore dello Shin Bet Amihai Ayalon, l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair e l’ex ambasciatore israeliano in Sudafrica Alon Liel, probabilmente la persona che più sapeva di cosa si stesse parlando.

La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo.

Nel frattempo, nel mondo, di quella parola viene sollecitato un uso ancora più ampio. Amnesty ha chiesto che tra i più gravi crimini di diritto internazionale, dunque come crimine contro l’umanità, sia riconosciuto e inserito quello di apartheid di genere, dando seguito alle richieste che si levano da anni, ben a ragione, dalle attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan e Iran.
*portavoce di Amnesty International Italia