Oltre al drammatico bilancio delle vittime, i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza stanno devastando il millenario patrimonio storico palestinese. Heritage for Peace e International Council of Museums-Arab (ICOM-Arab) stimano una distruzione di oltre cento siti archeologici. Sofferenza collaterale sì, ma vera e propria «mattanza culturale» che intensifica l’obliterazione del retaggio di un popolo.

Ma nulla di nuovo in tempo di guerra: basti pensare alle sistematiche distruzioni dei patrimoni preislamici nei territori iracheni e siriani da parte dell’Isis, Palmira, Ninive, Mosul e molti altri. D’altra parte, in questo mondo in fiamme, non c’è sito archeologico che non sia a rischio di danneggiamenti o distruzione; così come lavorare in zone di guerra o nei suoi dintorni, mette a rischio anche la vita di chi scava. Il Professor Seyed Mansur Seyed Sajjadi, iraniano, 73 anni, noto archeologo, scava a Shahr-i Sokhta dal 1997 – al confine tra Iran e Afghanistan – dove i bombardamenti americani prima, e il ritorno al potere dei talebani con relativo caos sulla frontiera poi, hanno messo la sua missione e la sua incolumità personale a serio rischio.

Lo incontro nella sua casa di Monteverde, a Roma, dove – tra libri, fotografie e oggetti rari – il professor Sajjadi vive con sua moglie Angela quando non è in Iran.

Professore, come avete lavorato in un sito così esposto a pericoli?
Stando così vicini a un eterno teatro di guerra, abbiamo rischiato di essere bombardati dagli Americani, e anche sconfinamenti di predoni afghani erano una spada di Damocle. Ma né il sito, né chi ci lavora è mai stato colpito. Questo perché siamo circondati dal deserto salato… infatti, abbiamo sofferto molto per la mancanza d’acqua. I pericoli più seri furono piuttosto nell’82, quando scavando nell’Iran centrale eravamo sotto costante minaccia di bombardamenti iracheni. Il problema era: dove nascondersi? Ad ogni modo, i miei colleghi, sempre sotto le bombe irachene, sono riusciti a salvare due importantissimi siti iraniani nella regione del Khuzestan. Noi archeologi siamo come soldati con in mano un piccone e nell’altra una penna: dobbiamo, in primis, difendere il patrimonio culturale del Paese, e più in generale del mondo. Indipendentemente dall’orientamento religioso e dalla situazione politica.

In quanto a Shahr-i Sokhta, il sito è immerso nell’infernale deserto salato, tra le alture del Baluchistan e il confine afghano…
C’è chi la definisce la «Pompei d’Oriente»: così come la lava vesuviana ci ha conservato Pompei quasi fosse un’istantanea, le sabbie del deserto salato hanno preservato i 151 ettari sui quali sorgeva questa straordinaria civiltà.

Perché è così straordinaria?
Si tratta di una testimonianza di civiltà coeva a quella sumerica, ma indipendente sia dalla cultura mesopotamica che da quelle orientali. Era autonoma dal punto di vista della produzione delle materie prime, estremamente viva da un punto di vista commerciale e socialmente stratificata. Shahr-i Sokhta, letteralmente «città bruciata» in persiano, nasce come piccolo villaggio che pian piano si è sviluppato diventando una metropoli che importava oro e pietre semi-preziose dalle montagne dell’Afghanistan e dall’Asia centrale. Questo dimostra che non tutto è nato tra il Tigri e l’Eufrate. All’inizio di uno scavo, l’archeologo ha sempre un’idea possibile di datazione. Dopo quasi cinquant’anni di lavoro abbiamo trovato il materiale che ci ha permesso di anticipare al 3550 a.C., anziché al 3200, l’inizio della civiltà di Shahr-i Sokhta.

Dal punto di vista geopolitico che tipo di società ci si presenta?
Cominciamo col dire che si trattava di una società molto pacifica. Fino a oggi non è stata ritrovata alcun’arma, né offensiva né difensiva. Nessuna muraglia, torre o altro tipo di fortificazioni; tangibile segno della mancanza di un apparato militare. Era, quindi, a tutti gli effetti una città di artigiani, commercianti e allevatori: l’unico caso che ci risulti di morte violenta riguarda un ragazzo di circa14 anni sepolto dal crollo del muro di un palazzo bruciato.

Nel 2006, avete trovato la più antica protesi oculare mai rinvenuta: ne hanno parlato i giornali di tutto il mondo attribuendola a una sciamana…
Sono state trovate molte cose interessanti nel sito, ma la protesi è sicuramente l’oggetto più significativo. L’occhio finto è in bitume naturale, misto con grasso di cinghiale con tanto di venature disegnate in oro: a quanto pare conoscevano perfettamente l’anatomia dei bulbi oculari. Che fosse una sciamana non possiamo escluderlo, ma non abbiamo nemmeno dati che lo confermino. Credo che la protesi fosse presumibilmente usata per nascondere un difetto fisico, anche perché pare che le donne di Shahr-i Sokhta fossero molto attente alla cura del corpo. Pensate, in una scatola di legno abbiamo trovato anche un set completo di materiale da trucco: uno specchio, un pettine e un piccolo mortaio.

Vi siete imbattuti in altre scoperte particolari?
Abbiamo rinvenuto un macaco, databile tra il 2.800 e il 2.500 a.C., seppellito come un umano, accompagnato, cioè, da un vaso e un bicchiere. Era all’interno di una fossa semplice, come facevano per le sepolture dei bambini. Come analizzato dalla nostra archeo-zoologa Claudia Minniti, il macaco aveva entrambi i femori patologici, forse per una distrofia muscolare che suggerisce lo stato di cattività dell’animale. Il macaco, peraltro, non è originario dei territori di Shahr-i Sokhta e abbiamo ipotizzato sia stato portato lì da un commerciante, forse indiano, come animale da compagnia.

A un certo punto la civiltà scompare. In che modo?
È un mistero. La civiltà collassa intorno al 2200 a.C. probabilmente per l’estrema siccità del luogo col conseguente prosciugamento dei bacini circostanti. Purtroppo negli anni, il nostro lavoro è andato avanti a intermittenza, rallentando anche i risultati. Per esempio, nel ’79, a seguito della Rivoluzione islamica, tutti gli scavi sono stati interrotti per due, tre anni. Di lì a poco è passato un disegno di legge che ha bloccato l’ingresso in Iran delle missioni straniere indipendenti. Da allora tutti i siti del Paese devono essere sotto il controllo di una missione autoctona; al massimo congiunta con un’università estera, oppure specialisti stranieri vengono invitati come «ospiti» per tempi limitati. Anche adesso funziona così.
Nel ’97 ho ripreso gli scavi di Shahr-i Sokhta come direttore e solo nel 2016 è cominciato il lavoro congiunto con il gruppo di ricerca italiano diretto dal Professor Ascalone dell’Università del Salento. Ma dal 2021 al team italiano, come a tutte le altre missioni europee, non viene rilasciato il visto. È una decisione politica di cui non conosco i dettagli.

Come sono divulgati i risultati della vostra missione?
Il sito è protagonista di una serie di documentari trasmessi dalla televisione iraniana, e vi sono stati ambientati anche tre romanzi storici. Da parte nostra, oltre agli articoli scientifici, abbiamo organizzato una mostra al National Museum of Iran di Teheran, poi ospitata anche dalle Università di Zahedan e Zabol. Ma la vera occasione, in Italia, per conoscere Shahr-i Sokhta è adesso a Lecce: dal 13 al 28 Luglio, presso il Monastero degli Olivetani si tiene una grande mostra fotografica organizzata con il Professor Ascalone, appunto, e il team dell’Università del Salento.