«Siamo stati accontentati»: fedele alla sua abitudine, guardare sempre il bicchiere mezzo pieno, Mario Draghi, in conferenza stampa al termine della riunione del Consiglio europeo, si dichiara soddisfatto per il passo avanti sul fronte che per l’Italia era il più importante: il price cap sul gas. Per ora la commissione è impegnata solo a esaminare la questione, a soppesare costi e benefici, ma il premier italiano sembra convinto che la strada sia tracciata e soprattutto che sia stata messa sul tavolo una questione essenziale che va oltre l’attuale emergenza: la formazione del prezzo dell’energia che non può più essere calibrata, come un tempo, sul prezzo del gas.

Soddisfazione piena anche per l’embargo sul petrolio, soprattutto perché appena pochi giorni fa ipotizzarlo «non sarebbe stato credibile». Insomma: pieno successo. Di quanto le nuove misure possano funzionare nel colpire la Russia, Draghi non parla. Assicura in compenso che le sanzioni inizieranno a dispiegare il loro pieno effetto a partire dall’estate.

Il secondo punto fondamentale per l’Italia, un nuovo fondo comune per fronteggiare la crisi energetica, sembra molto meno a portata di mano, tanto che Draghi evita di citarlo e ne parla solo rispondendo a una domanda precisa. Fa capire che al momento proprio non è all’orizzonte. Ci sono in compenso altri fondi ancora a disposizione, soprattutto i 200 e passa miliardi avanzati dal Next Generation Eu, e sul come usarli il Consiglio discuterà nel prossimo vertice.

Non è la stessa cosa ma Draghi non demorde: il bilancio comune resta l’obiettivo, il passo compiuto proprio col Next Generation Eu è decisivo e comunque sarà la realtà a farsi valere. Perché «le sanzioni dureranno molto, molto a lungo» e la nuova situazione commerciale non potrà essere affrontata se non in comune. Ma il problema resta così inevaso. Il premier ha ripetuto più volte che il governo continuerà a sostenere le fasce più povere colpite dall’inflazione e dall’aumento del prezzo dell’energia e le aziende per garantirne la competitività. Come farlo senza un Energy Fund europeo e senza poter fare nuovo debito, strada quasi completamente ostruita dalla Commissione proprio negli ultimi giorni, resta un mistero.

Sulla guerra Draghi ripete il suo mantra: «Putin non deve poter vincere questa guerra. L’Ucraina sarà quella che deciderà la pace». È la linea più rigida, quella meno aperta a un’ipotesi di trattativa. È la strategia di Draghi: massimo allineamento alla Nato proprio per aver poi margini di azione senza incorrere in diffidenze e sospetti di slealtà. Ma è anche una linea diversa da quella che vorrebbe una parte sostanziale della sua maggioranza. A partire dai 5 Stelle che sono decisi, il 21 giugno, a non votare una risoluzione che parlasse di nuovo di invio di armi all’Ucraina e potrebbero anzi metterne in campo una loro apertamente contraria alla fornitura d’armi.

La Lega, dopo il clamoroso incidente in cui è incorso Matteo Salvini, è un capitolo a sé. Draghi è stato in materia tanto tranchant quanto garbato: «Quando il governo è nato sono stato chiarissimo: fermamente collocato nella Ue e nel rapporto transatlantico. Non si fa certo spostare da queste cose». Le «cose» in questione non sono solo l’idea peregrina del viaggio in Russia. È anche l’incontro di Salvini con l’ambasciatore russo, a guerra già iniziata, all’insaputa del governo e della stessa Lega, grazie ai buoni uffici di una figura ambigua come il «consigliere» Capuano. Il premier ricorda di aver chiesto esplicitamente a tutti di muoversi «con trasparenza», e la critica, pur se non esplicitata, è evidente.

Per Draghi può bastare. Per Enrico Letta no. Con la campagna elettorale alle porte il segretario del Pd non potrebbe fare a meno di affondare la lama neppure se volesse: «Chiediamo delle risposte. Chiediamo con chiarezza che questa vicenda non si concluda a tarallucci e vino». Vuol dire portare Salvini, almeno politicamente, sul banco degli accusati, coinvolgere il parlamento in una discussione sul suo operato. In questo modo, però, un Salvini alle corde potrebbe diventare incontrollabile e ingovernabile, tanto più se pressato dalla concorrenza di Conte. E la prova del 21 giugno, già ad alto rischio, lo diventerebbe molto di più.