Il giochino della premier Meloni, che vorrebbe sganciare il destino del suo governo dall’esito dell’eventuale referendum sull’elezione diretta del premier, è durato solo tre giorni. Venerdì scorso, memore della disastrosa esperienza di Renzi, la premier aveva messo le mani avanti: «L’andamento del governo non è in discussione». Ma ieri le opposizioni hanno messo nel mirino proprio lei.

«SULLA RIFORMA costituzionale il governo ha deciso di imporre alle Camere un testo approvato in consiglio dei ministri», attacca il capogruppo del Pd in Senato Francesco Boccia. «Per questo, se il governo perde il referendum deve andare a casa». Lo stesso concetto aveva espresso in mattinata la sua collega della Camera Chiara Braga: «Se definisci questa la ‘”madre di tutte le riforme”, non puoi fischiettare e non trarne le conseguenze».

Anche Giuseppe Conte è dello stesso avviso: «Credo che se andasse al referendum e perdesse dovrebbe necessariamente trarne le conseguenze». La segretaria del Pd Schlein è durissima: «Questa riforma è una schifezza: il presidente della Repubblica diventa un arredo». La piazza dem dell’11 ottobre a Roma, nata per contestare la manovra di bilancio, assume nelle parole della leader anche il significato di un no al premierato: «Daremo battaglia in Parlamento e fuori, a cominciare dalla piazza».

DECISAMENTE CONTRARIO anche il leader della Cgil Maurizio Landini: «Abbiamo detto di no quando la volevano cambiare Berlusconi e poi Renzi: per noi conta che la Costituzione uscita dalla resistenza va applicata, non va cambiata». E aggiunge: «Siccome non si vuole parlare della legge di bilancio balorda che hanno fatto e si cerca di nascondere che in questo anno di governo è peggiorata la condizione del lavoro, ci si inventa il fatto che solo l’elezione diretta del presidente del Consiglio farebbe risolvere i problemi». Il portavoce dei Verdi Angelo Bonelli già guarda al referendum, che si terrà non prima del 2025: «Siamo pronti a lanciare Comitati in difesa della Costituzione in tutta Italia».

IN REALTÀ L’ITER parlamentare deve ancora iniziare, e prevede due sì da parte di entrambi i rami del Parlamento. Nella maggioranza al confusione regna sovrana. Da una parte La Russa assicura che farà di tutto per avere i voti dei due terzi dei parlamentari per evitare il referendum, dall’altra Calderoli si dice già convinto che i voti delle opposizioni non arriveranno.

Poi c’è la ministra delle Riforme Casellati, madre del ddl, che dice che «il testo «non è blindato» e invita le opposizioni a non essere «pregiudiziali». Lei stessa prova dribblare le critiche sul taglio netto ai poteri del Quirinale: «Chi lo dice mente sapendo di mentire». E annuncia: «La legge elettorale la sto già elaborando, abbiamo soltanto messo il 55% perché questo dà stabilità». Il vuoto pneumatico. Anche Italia Viva, favorevole all’elezione diretta, annuncia molti emendamenti, e già boccia punti qualificanti come la norma anti-ribaltone, l’assenza del ballottaggio e del limite ai mandati del premier.

DENTRO LA MAGGIORANZA il fragile equilibrio raggiunto la settimana scorsa già traballa: Fdi preme affinché in caso di sfiducia al premier si torni subito al voto, la Lega difende la possibilità di nominare un sostituto. «Noi siamo d’accordo con il principio del “sindaco d’Italia”, ma il Parlamento non può diventare come un consiglio comunale, non può essere svilito», spiegano fonti leghiste. Dubbi a destra anche sull’opportunità di inserire in Costituzione il premio di maggioranza al 55%, uno dei passaggi più controversi del disegno di legge.

Il presidente di Confindustria Bonomi la definisce «una riforma a metà e le riforme a metà non funzionano». Calenda rilancia il modello tedesco di cancellierato, senza elezione diretta ma col potere di nomina e revoca dei ministri e la sfiducia costruttiva. A Pd e M5S non dispiace, ma i tempi per una controproposta delle opposizioni non sembrano ancora maturi.