Chissà se anche Giorgia Meloni vorrà aprire un fronte contro i «professoroni» contrari alla sua riforma costituzionale come fece Renzi nel 2016. Di certo la giornata di ieri, con le prime audizioni di esperti in commissione al Senato (alla presenza della ministra Casellati), non ha portato buoni pensieri alle premier: nette le obiezioni al premierato da parte di quattro ex presidenti della Corte costituzionale come Gustavo Zagrebelsky, Marta Cartabia, Ugo De Siervo e Gaetano Silvestri.

CARTABIA HA MESSO SUBITO in luce due limiti della proposta del centrodestra: il premio di maggioranza che porterebbe ai vincitori il 55% dei seggi («Inserirlo in Costituzione è molto problematico») e la limitazione dei poteri del Capo dello Stato che sarebbero fortemente «incisi» dall’introduzione di «elementi di rigidità» che andrebbero a ledere la sua «funzione equilibratrice tra i vari centri di potere» e di intervento nei casi di «situazioni imprevedibili». Inoltre, «non è scontato che l’elezione diretta del premier stabilizzi il sistema politico». Al contrario, l’instabilità «potrebbe scaricarsi» sulla vita stesse delle Camere, portando a ripetuti scioglimenti.

DE SIERVO HA RASO AL SUOLO la logica del “sindaco d’Italia”, «sbagliata e pericolosa, un errore clamoroso, una forma di elezione diretta del premier che non esiste in nessun paese del mondo». «I poteri del Quirinale si ridurrebbero moltissimo, il presidente sarebbe tenuto a benedire l’eletto dal popolo, la Costituzione indicherebbe in modo rigido se e quando potrebbe sciogliere le Camere». Per De Siervo «la sovranità popolare si esprimerebbe ogni cinque anni come un lampo»: «Ma in cinque anni una società cambia profondamente, non a caso negli usa ci sono elezioni di medio termine per le Camere».

ZAGREBELSKY HA SOTTOLINEATO come una riforma che «si presenta con una veste minimale», in realtà produca un «ribaltamento del sistema costituzionale» con il rischio che le istituzioni diventino una «camicia di forza». E ha ribadito la contraddittorietà nel prevedere il voto di fiducia delle Camere per un premier eletto, così come l’indicazione di un «leader di ricambio» in caso di caduta del primo: «Servirebbe a dare spazio a scontri di potere e manovre di palazzo dentro la maggioranza». E comunque, se si volesse seguire la strada del presidenzialismo «bisognerebbe correggere i quorum per eleggere tutte le istituzioni di garanzia», dal Quirinale alla Consulta, per evitare una tirannia della maggioranza.

GAETANO SILVESTRI HA INVITATO i senatori a evitare di «risolvere problemi politici con mezzi giuridici di tipo costrittivo». «Una illusione che viene coltivata fin dall’introduzione del maggioritario negli anni 90, ma che è ormai caduta». E ha spazzato via l’idea di una maggiore stabilità dei governi: «Le crisi italiana sono frutto di convulsioni dentro le maggioranze, con questa riforma che è una miscela esplosiva tra forma di governo parlamentare e presidenziale, potremmo avere una instabilità ancora più grave dell’attuale». Una sorta di pendolo tra «il rischio di stallo e un irrigidimento autoritario». E ancora: «Il Quirinale entrerebbe in un cono d’ombra, perderebbe la funzione di moderazione e di equilibrio limitandosi a un ruolo notarile».

A FAVORE DELLA RIFORMA si sono spesi gli esperti Francesco Saverio Marini (tra i padri del testo Meloni) e Tommaso Frosini. Quest’ultimo ha ricordato che anche il semipresidenzialismo introdotto in Francia da De Gaulle era, in quegli anni, un unicum, ma ha criticato la fiducia al premier eletto e invitato a modificare la norma anti-ribaltone: «Se cade il premier eletto si torni al voto». «Il premierato non farebbe altro che codificare quello che accade in Italia dagli anni 90. I poteri del Colle limitati? Una polemica assurda, anche oggi non ha poteri sostanziali».

D’accordo Marini: «Anche oggi il presidente non nomina un suo amico, ma il leader che ha vinto le elezioni. Con la riforma non avremo più governi tecnici che sono al limite della patologia costituzionale». Alessandro Sterpa docente all’Università della Tuscia, ha posto un problema rilevante: «Se il secondo governo deve avere lo stesso programma del primo, chi vigila sul rispetto di questo vincolo?». Una domanda rimasta senza risposte.

DECISAMENTE CONTRARIO anche il parere di Cgil e Uil, presenti alle audizioni. «La riforma consegna a una minoranza un dominio incontrastato sulle istituzioni e non lascia alcuno spazio al confronto e alla mediazione sociale. Una deriva autocratica che contrasteremo con tutti gli strumenti democratici a disposizione», ha detto Christian Ferrari della Cgil. Per Ivana Veronese della Uil «si mettono in forte discussione i poteri del capo dello Stato che da arbitro imparziale diventa notaio».

Anche la Cisl, pur meno critica, ha chiesto con forza di «salvaguardare il ruolo di garanzia» del Quirinale. Durante la seduta il presidente della commissione Balboni (Fdi) ha tolto la parola al dem Parrini, accusato di aver parlato troppo: «Non si può permettere di contestare la presidenza». Forti proteste di Pd e M5%, intervengono anche i capigruppo Boccia e Patuanelli: «No a una gestione autoritaria dei lavori».