Editoriale

Pregi e difetti della comunità-famiglia

il manifesto, foto di gruppo 1988il collettivo del manifesto, 1988

#ilmanifesto50 In quelle stanze c’era una passione politica che altrove non ho più ritrovato in uguale misura. Le riunioni di redazione erano straordinari momenti di formazione politica. Il giornale era un periscopio con cui inquadrare i fatti internazionali e italiani

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 28 aprile 2021

Ricordo bene il 28 aprile 1971. Con altri liceali avevo organizzato la diffusione del primo numero del quotidiano. Ma il manifesto non arrivò in edicola. Sapemmo dopo che i camioncini dell’editore del Corriere dello sport, che trasportavano molte testate verso il centrosud, avevano deciso di non caricare il manifesto, malgrado gli accordi dei giorni prima. Un polemico corsivo di Luigi Pintor rivolto al direttore del Corriere Antonio Ghirelli, titolato Mafia e sport, servì a sbloccare l’indomani la situazione.

La trepidante attesa del primo numero andò quindi delusa. In gruppo decidemmo di chiamare poi la redazione di via Tomacelli per saperne di più. Riuscii a parlare con Filippo Maone, che mi lesse il sommarione di prima pagina, accolto da noi con un applauso: «Dai duecentomila della Fiat riparte oggi la lotta operaia…». La diffusione fu rinviata al giorno dopo. Passai gli anni del liceo già con il manifesto in tasca.

In quello stesso 1971 iniziai a collaborare con il giornale. Gli articoli li spedivo la sera per «fuori sacco» (un metodo prioritario di spedizione riservato ai giornali). Altre volte li dettavo ai dimafoni. Parlavo spesso con Francesco De Vito, del servizio politico, che avrei ritrovato collega della stampa parlamentare a Montecitorio. Qualche volta seguivo le indicazioni di Luca Trevisani e Michele Melillo, i primi caporedattori di via Tomacelli, che per diversi anni avevano lavorato con Pintor all’Unità. In seguito, stabilii rapporti continuativi con Rina Gagliardi e Ritanna Armeni.

Al giornale c’erano fin da allora Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco, che attualmente sopportano la fatica di dirigerlo.

Arrivato a Roma nel 1973, iniziai a frequentare il collettivo universitario del manifesto, che si riuniva nella sede di via Monterone, e la redazione al quinto piano di via Tomacelli aperta di buon’ora dalla mitica centralinista Giovanna Falli e chiusa dal tuttofare Luigi Mancini, mentre Giuseppe Crippa era il ferreo amministratore di pochi soldi, soprattutto sottoscrizioni, e Ornella Barra una delle segretarie di redazione.

In quelle stanze c’era una passione politica che altrove non ho più ritrovato in uguale misura. Le riunioni di redazione erano straordinari momenti di formazione politica. Il giornale era un periscopio con cui inquadrare i fatti internazionali e italiani.

Dal 1974 seguii più da vicino le vicende del Pdup (Partito di unità proletaria, di cui era segretario Lucio Magri, nato dall’unificazione di Circoli del manifesto e le componenti di sinistra del Psiup e del Mpl diretto da Livio Labor).

Presi quasi subito a rilegare i semestri del quotidiano con la convinzione che sarebbe durato in edicola qualche anno appena. Ora mi ritrovo con le annate fino al 1978 che occupano molto spazio e festeggio il cinquantennio del manifesto dove ho passato alcuni anni da redattore.

Oggi quel giornale ha alle spalle cinque decenni pieni di notizie e commenti raccontati all’inizio nel 1971 con quattro pagine al prezzo di 50 lire. Da via Tomacelli sono passate nel frattempo intere generazioni di giornalisti e il manifesto, cinque anni prima di Repubblica, ha contribuito anche a rompere il conservatorismo della stampa italiana e della corporazione di chi ci lavorava.

Senza la nascita del manifesto molti di noi non avrebbero mai pensato di fare i giornalisti: non ne avrebbero avuto l’opportunità. Ci siamo, quindi, formati in un peculiare rapporto tra politica e giornalismo: è il marchio di fabbrica di chi ha lavorato in questo giornale.

Ripassando il mezzo secolo, ci sono mille episodi che vengono alla memoria, insieme a amicizie, legami del giorno per giorno, liti e separazioni più o meno dolorose per altri percorsi di vita e dissensi politici.

Il pensiero iniziale va a chi non c’è più: Gianfranco Bangone, Sandro Bianchi, Stefano Bonilli, Franco Carlini, Carla Casalini, Severino Cesari, Stefano Chiarini, Giuseppina Ciuffreda, Paola Crippa, Astrit Dakli, Giovanni Forti, Rina Gagliardi, Grazia Gaspari, Edoardo Giammarughi, Michele Melillo, Lidia Menapace, Mario Morganti, Angela Pascucci, Francesca Pilla, Giorgio Salvetti, Vincenzo Scarpellini, Luca Trevisani, Benedetto Vecchi.

E poi i «maestri»: K. S. Karol, Lucio Magri, Eliseo Milani, Aldo Natoli, Michelangelo Notarianni, Valentino Parlato, Luigi Pintor, Rossana Rossanda. Un grazie, naturalmente, va a chi tra i fondatori c’è ancora: Luciana Castellina, Filippo Maone.

Siamo stati per tanti anni una comunità politica particolare, con i difetti e i pregi dei collettivi che diventano «famiglie». Spesso i rapporti erano esageratamente esclusivi. Vivevamo insieme troppo tempo, in una miscela autosufficiente di politica e personale.

Comunque, il manifesto resta un’esperienza eccezionale. Su queste pagine, ogni tanto, scrivo ancora con piacere.

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