Jan Hus, condannato al rogo come eretico nel 1415, e Jan Žižka, intrepido condottiero degli eserciti hussiti, sono personaggi sicuramente estranei all’orizzonte culturale del presidente del Senato Ignazio La Russa che, «riparando» a Praga per il 25 aprile, ha rilanciato in questi giorni la figura di Jan Palach.

Eppure il giovane poco più che ventenne che si immolò il 16 gennaio 1969 in piazza Venceslao a Praga, davanti al Museo Nazionale, aveva come riferimento proprio i gesti estremi di questi grandi esponenti della storia ceca. Essi avevano animato la sua fanciullezza nei racconti del padre. Palach dirà al personale sanitario che era al suo capezzale che aveva preso a modello anche i monaci buddhisti del Vietnam che si immolavano contro la guerra d’aggressione americana al Paese asiatico.

Studente inizialmente di Economia, Jan Palach era stato ammesso solo successivamente alla Facoltà di Filosofia, più congeniale ai suoi interessi. Era il settembre del’68 e nel frattempo era intervenuto un “aiuto fraterno” da parte degli alleati della Cecoslovacchia. Jan, come tanti suoi coetanei, aveva avuto grande familiarità con i giovani russi, che aveva frequentato durante la sua partecipazione alle brigate di lavoro in Unione Sovietica nell’estate del ’67 e proprio alla vigilia dell’invasione, il 17 agosto, era rientrato dalla sua seconda esperienza in quel paese. Ne aveva tratto una valutazione alquanto critica, che si era manifestata nelle lettere alla madre.

Iscrittosi al Seminario di Storia mostrava però un grande entusiasmo per le teorie di Marx, sembrava che ne avesse letto diverse opere e lo descriveva come un genio, allo stesso tempo era aperto al dialogo e al confronto. Egli sentiva la necessità, certamente sull’onda dei dibattiti che erano andati animando la “Primavera”, di mantenere fermi gli ideali di libertà, di umanità, di uguaglianza tra i popoli. Vi era in lui una forte carica etica e una concezione idealistica della rivoluzione quale primo passo di un rinnovamento sociale che assicurasse un futuro all’umanità.

Non si può non rilevare in tutto ciò una netta consonanza con il pensiero che Alexander Dubcek, divenuto segretario generale del partito comunista il 5 gennaio di quell’anno, era andato esponendo nei suoi discorsi. Al plenum del partito in aprile egli aveva detto chiaramente che «il fine di questo processo (del «nuovo corso») deve essere la creazione delle condizioni necessarie ad ogni individuo per autoaffermarsi in tutte le sfere del lavoro e della vita».

La grande accusa che si rivolge a Dubcek è quella di non aver saputo affrontare con fermezza e coraggio gli eventi successivi all’invasione. È difficile stabilire quanto spazio di manovra vi fosse per una effettiva liberazione dal giogo sovietico nelle condizioni internazionali di allora e con una pressione militare forte di circa 600 mila uomini, 10 mila carri armati, 800 aerei e 2000 cannoni.

Il vero significato della politica di Dubcek, con il suo «socialismo dal volto umano», sta piuttosto nell’aver costituito un fattore di rottura, una svolta rispetto ai regimi vessatori di tipo burocratico e poliziesco che asfissiavano le cosiddette «democrazie popolari».

Certo, per un giovane quale Jan Palach, il fatto che questo leader «luminoso», e sul quale aveva fatto sicuro affidamento, avesse firmato il Protocollo di Mosca del 26 agosto, il Diktat con il quale i dirigenti sovietici avevano costretto gli esponenti cecoslovacchi a ritrattare e ad abbandonare i loro progetti, aveva rappresentato uno choc tremendo. Egli si era sentito ingannato e sconvolto nelle sue idealità e aveva vissuto come un tradimento il ritorno all’ordine precedente, alla «normalizzazione». Di conseguenza gli appariva come un dovere manifestare in qualche modo il suo dissenso e scuotere la rassegnazione nella quale erano piombati i suoi concittadini. All’Università aveva scritto un componimento intitolato «L’importanza della coscienza nell’agire dell’uomo».

La sua azione non fu tanto rivolta contro l’occupazione in sé, perché allora si sarebbe dovuta realizzare in agosto, quanto piuttosto per denunciare il cedimento dei governanti e per suscitare la resistenza.

Riecheggiava in questo gesto «sovrumano» di Jan l’eco della Cecoslovacchia democratica e del messaggio di Tomáš Garrigue Masaryk, il suo fondatore e primo presidente, già chiaramente espresso ne La Nuova Europa del 1918 (ora Castelvecchi, 2021), per cui nessun uomo e nessuna nazione sarebbero potuti diventare uno strumento in mani altrui. Se ne servirono invece i regimi fascisti- ma questo La Russa preferisce non ricordarlo – che, come ha detto il presidente Mattarella, «consegnarono i loro cittadini ai carnefici nazisti». La deportazione di 58mila ebrei fu il marchio anche della cosiddetta “Repubblica slovacca”, di monsignor Jozef Tiso, una dependance filonazista del Terzo Reich, e il ghetto di Terezín, la vecchia fortezza asburgica che i «tecnici» nazisti intendevano mostrare come campo modello, pure evocata in questi giorni, divenne l’inferno di quindicimila bambini. I loro strazianti disegni e le loro brevi e intense poesie sono di per sé una condanna definitiva e senza appello.

Questo passato appare del tutto antitetico a quello dell’esponente italiano che ha voluto ricordare a Praga il 25 aprile.

* storico e slavista, biografo di Jan Palach e Alexander Dubcek.