Santa Maria Capua Vetere è solo la punta di un iceberg? La domanda risuona da giorni, di nuovo, come ogni volta che, forza maggiore, siamo costretti ad aprire gli occhi su quel mondo separato e apparentemente lontano da noi che è l’universo carcerario. Dal 5 luglio 2017, quando il reato venne introdotto nel nostro codice penale, sono molti i procedimenti per tortura attualmente aperti in Italia: San Gimignano, Ferrara, Firenze, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi e Pavia, secondo l’associazione Antigone. Ogni volta che le cronache ricalcano «non solo la definizione giuridica ma anche quella letteraria e cinematografica di tortura», per usare le parola del pm di Santa Maria, assistiamo allo stesso rituale: da un lato i processi mediatici, dall’altro i sindacati di polizia penitenziaria che si chiudono a riccio a difesa quasi incondizionata della “purezza” del corpo, rifiutando persino a volte di ammettere ciò che è ormai sotto gli occhi di tutti. Un universo nell’universo carcerario, quello delle sigle sindacali degli agenti penitenziari (almeno una ventina), all’interno del quale si fa fatica a distinguere destra o sinistra, ispirazioni, programmi, orientamenti politici. Sembrano tutti uguali, ma non lo sono.

SOLITAMENTE PERÒ, e forse non a caso, ogni agente è iscritto a più sindacati contemporaneamente. Le sigle ammesse alla contrattazione nazionale dal ministero della Pubblica amministrazione (quelle che hanno una rappresentatività non inferiore al 5% del dato associativo complessivo) sono il Sappe con 8 distacchi sindacali, l’Osapp e la Uilpa con 5, il Sinappe con 4 sindacalisti a tempo pieno, l’Uspp e la Cisl Fns con 3, la Cgil Fp/pp e la Fsa Cnpp con due distacchi. Ma l’altro giorno ad essere convocati dalla ministra Cartabia erano in 24, perché nell’universo detentivo hanno un peso, seppur minore, anche i medici e gli operatori socio-sanitari. E naturalmente i dirigenti, che nell’amministrazione penitenziaria rappresentano una selva a sé stante: «Solitamente ai vertici del Dap siedono persone provenienti da altre dirigenze, spesso in conflitto con la dirigenza della polizia penitenziaria – riflette Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Pp che conta 4600 agenti iscritti -. Proprio riguardo i fatti di S.M. Capua Vetere abbiamo fatto presente che nell’amministrazione penitenziaria ci sono sei dirigenze, con cinque carriere diverse, con regimi e determinazioni giuridiche diverse. Per dirla in termini banali, alla fine non si sa chi comanda».

E NON È MICA FACILE comandare un corpo di 37.181 unità, di cui realmente operativi solo 32.545. Secondo il XVII rapporto di Antigone, «la differenza fra personale previsto e effettivamente presente è pari al 12,5%. La carenza di agenti non è però equamente distribuita a livello nazionale. Abbiamo infatti provveditorati con un sotto organico superiore al 20%, come in Sardegna e in Calabria, e altri invece con un numero di unità effettive leggermente superiore a quelle previste, come in Campania e in Puglia-Basilicata». Dati smentiti però dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: «Nella mia regione mancano 700 agenti ma né i governi gialloverdi né quelli giallorossi hanno risolto il problema. Gli agenti fanno turni massacranti, dovrebbero essere di 6 ore e ne fanno 8 o anche 10. Nessuno si preoccupa della loro salute mentale, del burnout provocato da quel tipo di lavoro (Ciambriello è uno dei pochi ad aver organizzato un corso, ndr), dei suicidi che sono più frequenti che in ogni altro corpo di polizia (circa 12 l’anno, ndr). Poi c’è da dire che almeno da dieci anni, dei 4500 agenti penitenziari campani, per vari motivi, ogni giorno nei 15 istituti della regione mancano all’appello tra le 300 e le 500 unità».

Perché i poliziotti vengono allocati anche in altre funzioni: scorte, picchetti ai varchi dei tribunali e in altri posti di sicurezza (circa 6 mila). Poi ci sono quelli impiegati nell’amministrazione (circa mille), un numero imprecisato di persone che ogni giorno si occupano delle traduzioni, delle matricole, del sopravvitto, dei conti correnti e così via, ed alcune centinaia che gestiscono i bar, le mense e gli spacci interni agli istituti. «Tutti ruoli istituzionali», tiene a precisare Donato Capece, segretario generale del Sappe (9350 iscritti, di cui 86 dirigenti). Sì, perché nel 2020 è stato corretto il decreto legislativo 95/2017 che separava i compiti amministrativi da quelli istituzionali dando così agli agenti la possibilità di “evadere” dal contatto diretto con i detenuti. Il Dap di Basentini aveva comunque calcolato un fabbisogno a livello nazionale di 17 mila nuove unità.

«Il problema – evidenzia Capece – è che il nostro è un Corpo di persone anziane, il personale che non ce la fa più. E lo stress, la sopportazione quotidiana di aggressioni fisiche e verbali – azzarda – può portare qualcuno a perdere il controllo». Capece è tra i più accaniti difensori della teoria delle «poche mele marce», considera Fratelli d’Italia e la Lega i partiti più vicini, parla di «grande inflazione di Garanti, che a mio avviso non dovrebbero neppure esistere» perché «già ci sono i magistrati di sorveglianza», dei detenuti dice che gli unici che sicuramente «non creano problemi» sono i mafiosi e i camorristi, e crede che sui fatti di Santa Maria «bisogna essere garantisti» con gli agenti ritratti in video. I migliori ministri di Giustizia? Per lui sono stati «Martelli, Vassalli, Conso, ma pure Orlando».

DI TUTT’ALTRO ORIENTAMENTO, De Fazio: «Non si può parlare di mele marce o schegge impazzite: è un sistema che non funziona e va riformato. Punto», dice. Il problema, spiega, è il reclutamento, e il grado di istruzione: solo da quest’anno agli aspiranti agenti di penitenziaria viene richiesto almeno il diploma superiore e «fino al 2017 si accedeva solo per il tramite delle forze armate, cosicché gli agenti avevano una formazione militaresca, abituati più a teatri di guerra che a compiti di “riabilitazione” nei quali il rapporto umano ha una grande importanza». Di per sé, ragiona il segretario Uilpa, «l’ostacolo potrebbe anche essere superabile, ma i corsi di formazione post-concorso dovevano durare un anno, sono subito stati ridimensionati a 9 mesi e l’altro giorno ho sentito perfino chiedere di ridurli a 3 soli mesi».

DUNQUE, UNA GRANDE differenza di vedute, tra le sigle sindacali. Anche se, come ricorda Ciambriello, «il vecchio motto degli agenti penitenziari era “Vigilare per reprimere”, che tradiva una concezione custodiale. Adesso, da anni, è “Infondere speranza”, che è più adatto al dettato costituzionale. Anche se col tempo c’è stata un’evoluzione, però, purtroppo l’imprinting è rimasto». «La riforma della penitenziaria è arrivata nel 1990, dopo quella della polizia di Stato che risale al 1981 – spiega il portavoce dei Garanti territoriali Stefano Anastasia – Per loro il processo di democratizzazione e sindacalizzazione è iniziato tardi, e da allora per quel sindacato, caratterizzato sempre più da dinamiche corporative, è stata sempre una rincorsa ad ottenere ciò che avevano già ottenuto gli altri. Ed è questo che rischia di caratterizzarli come un Corpo di serie B. Mi sembra che manchi in loro la consapevolezza di un ruolo che li rende differenti dalla polizia di Stato, mentre la loro importante qualificazione professionale è essere operatori del trattamento penitenziario».

Certo, l’immagine del provveditore campano Fullone che spiega a Basentini perché era «indispensabile riportare la calma e dare un segnale al personale», mostra che la catena di comando è al contrario: il vertice del Dap più che comandare sembra essere comandato. Dal sindacato. Che a sua volta, come riconosce lo stesso De Fazio, «è troppo spesso disposto a farsi orientare dalla pancia del Corpo, da esigenze estemporanee e dalla campagna di tesseramento. Invece di avere uno sguardo ampio e lungo per migliorare le forze di polizia al servizio del Paese».