Internazionale

«Poco lavoro, salari da fame: l’Iraq è disperato»

«Poco lavoro, salari da fame: l’Iraq è disperato»Una delle tende di protesta dei sadristi a Baghdad – Ap/Hadi Mizban

Medio Oriente Intervista a un attivista di Workers Against Sectarianism: «Il governo è ad interim e non ha redatto il budget annuale: non si investe in nulla. Guadagna solo chi è vicino alla classe dirigente. Il movimento di protesta ha perso, ma ci stiamo riorganizzando»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 31 agosto 2022

Di fronte a crisi politiche come quella irachena, dal quadro spesso sfugge l’aspetto che più di altri è fonte di conflitto interno: la questione economica e sociale. La miseria in cui il 60% degli iracheni vive, la carenza strutturale di servizi, il fallimento (almeno temporaneo) della rivolta popolare del 2019 sono ingredienti di cui tenere conto.

Come lo è la composizione di quella fetta di popolazione che si definisce sadrista: per lo più poveri, lavoratori a giornata relegati in ghetti come al-Sadr City, che hanno visto nella propaganda nazionalista del religioso sciita un possibile megafono alle proprie aspirazioni. Della crisi economica abbiamo parlato con S. P., attivista del collettivo Workers Against Sectarianism.

Qual è oggi la situazione socio-economica in Iraq?

Soffriamo di alti tassi di disoccupazione e salari molto bassi, non ci sono leggi sufficienti e i sindacati non hanno potere. Guadagna bene solo chi è vicino alla classe dirigente che ha bisogno di comprare fedeltà. Buona parte del budget va in corruzione e finanziamento delle rispettive milizie. Le stesse che controllano le vendite sottobanco di petrolio, ferro, armi, esplosivi. C’è grande rabbia, la si percepisce nelle strade: i servizi non esistono, in estate le temperature raggiungono i 50 gradi ma non c’è elettricità, strade e ospitali sono stati costruiti 50-60 anni fa. Dal 2003 nessun governo ha investito in infrastrutture.

A ciò si aggiunge un governo senza potere né budget.

Nessuno ora è in grado di formare un governo. Kadhimi è un premier a tempo, i suoi ministri si dimettono e non è stato redatto il budget annuale. C’è solo un governo d’emergenza che gestisce la situazione da tre anni senza stabilità politica. Questo ha effetti sull’economia, ma anche sulla sicurezza: attacchi terroristici, presenza delle milizie ai checkpoint, omicidi extragiudiziali, interferenze esterne di Turchia e Iran. La Banca centrale ha svalutato il dinaro iracheno sul dollaro, su pressione di al-Sadr, e non c’era un governo che sapesse impedirlo: i salari hanno perso il 25% del loro valore. Un altro esempio: con la crisi del grano dovuta alla guerra in Ucraina, due mesi fa il parlamento ha approvato una legge sulla sicurezza alimentare. Ma non c’è un budget per implementarla.

A tre anni dalla Rivolta di Ottobre, esiste ancora un movimento strutturato di protesta?

La rivolta non ha avuto successo per varie ragioni: la più importante è stata la mancanza di organizzazione e esperienza. Le scelte individuali hanno creato disaccordo nel movimento: alcuni erano contrari alla partecipazione alle elezioni, altri vi hanno preso parte aderendo al sistema e credendo alle promesse dei partiti politici. Emtidad ha ottenuto nove seggi, moltissimi in così poco tempo e senza denaro né milizie. Una volta in parlamento però non ha fatto nulla e alla fine cinque dei nove parlamentari si sono dimessi dopo appena sei mesi. Molti hanno nutrito grande speranza in Emtidad, ma non si può mantenere la propria indipendenza se si sceglie di correre alle elezioni e sedersi accanto a chi ha ucciso i tuoi compagni in piazza. Una repressione che ha annichilito l’intero movimento. C’è comunque una speranza: stiamo cercando di riformarci, facciamo incontri, iniziative, cortei e ricordiamo che quella di partiti e milizie non è una rivoluzione ma solo un confronto politico per il potere.

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