La vita sulla terra ha estrema necessità di un cambio di paradigma: dall’attuale «più veloce, più alto, più forte», al «più lento», «più profondo, più dolce». Nella differenza radicale tra queste due visioni si gioca una dialettica che ha come posta in gioco la sopravvivenza della nostra stessa specie ma, più ancora, quella di un complesso e meraviglioso sistema vivente i cui livelli di integrazione e retroazione sono ancora lungi dall’essere compresi.

In questo scenario va dunque collocata la miope polemica che ha investito in queste ultime settimane l’amministrazione di Bologna per aver deciso, seguendo d’altra parte l’esempio di città europee importanti come Londra, Bruxelles e Madrid, il cui traffico non è certo meno importante di quella del capoluogo emiliano romagnolo, di limitare la velocità urbana ai 30 all’ora. Eppure, tra le forze di maggioranza oggi al governo del Paese, si insiste sulla velocità come condizione esistenziale per il progresso, sulle infrastrutture stradali come viabilità imprescindibili per la crescita, in poche parole su una suggestione di retrogusto futurista fuori tempo massimo. Questa retorica contrasta alla radice la necessità di un cambiamento di prospettiva ma certo viene da lontano, radicata nel DNA di un certo populismo.

Basterebbe solo, a questo proposito, rievocare le incursioni sulle autostrade tedesche degli esponenti leghisti per sfogare il loro incontenibile bisogno di velocità senza freni quando furono adottati da noi i limiti attuali. Eppure, se ci si fermasse un momento a riflettere, ma è proprio questo soffermarsi a far paura a quella cultura politica, ci si accorgerebbe che l’accelerazione progressiva dei tempi di vita non genera affatto tempo liberato ma solo la necessità di produrre di più in meno tempo.

Già i Situazionisti, negli anni cinquanta del secolo scorso, ironizzavano sul traffico che rende immobili, letteralmente paralizzati, i pendolari all’interno di un ingorgo di macchine che si muovono tutte all’unisono nella stessa direzione.

E allora, cosa significa invece cogliere l’occasione per riavvicinare i ritmi del corpo a quelli del lavoro, potersi permettere di alzare gli occhi anche se per un solo momento, che è notoriamente molto più lungo dell’attimo, sulle stagioni urbane che si mostrano lungo i viali metropolitani?

E dunque, armonizzare il traffico urbano alla diminuzione dell’inquinamento, degli incidenti stradali, tornare in possesso di tempi di vita più fisiologici, significa realmente contrastare le destre sul terreno essenziale, quello simbolico, cioè della percezione del nostro esserci non solo nel ma con il mondo, costruendo giorno dopo giorno quel senso di responsabilità collettiva che nasce dalla consapevolezza di un rispetto verso noi stessi prima ancora che verso il prossimo, agire gesti che riconfigurano non solo l’urbs e la sua polis, ma anche e soprattutto il senso della civitas. Festina lente dicevano i romani: affrettai lentamente; un manifesto esistenziale per una vita sostenibile.