Visioni

Pinochet è «El Conde», il Cile sanguinario e mai seppellito

Pinochet è «El Conde», il Cile sanguinario e mai seppellitoJaime Vadell in una scena da «El Conde» di Pablo Larraín

Venezia 80 Il dittatore è un vampiro con il vizio dei conti offshore nel film di Pablo Larraín. Commedia nera sulle metamorfosi della destra, sarà su Netflix dal 15 settembre

Pubblicato circa un anno faEdizione del 1 settembre 2023

Pablo Larraín lo ha definito «una metafora semplice, per ricordarci che oggi la destra politica sta esplorando nuovi modi con cui conquistare elettori e poteri». Niente di più vero considerando la prontezza «mimetica» degli odierni adeguamenti. Chi è allora El Conde, Il Conte che dà il titolo al suo nuovo film – solo su Netflix dal 15 settembre – in concorso alla Mostra di Venezia dove il regista cileno è un habitué? Un vampiro nato centinaia di anni fa, che ha attraversato rivoluzioni e sommosse sempre dalla parte dei poteri più sanguinari e repressivi fino a incarnarne la stessa essenza. Spietato succhiatore di sangue meglio se di buona provenienza di classe perché quello del popolo sa di cattivo, una voce femminile fuori campo ce ne racconta le gesta.

QUELL’UOMO si chiama adesso Augusto Pinochet, tutti lo credono morto ma in realtà lui non può morire perché è «condannato» a vivere per sempre; si è nascosto in una magione remota e ha smesso di bere sangue per sparire dal mondo che lo ricorda non come un criminale assassino che ha ucciso migliaia di persone ma come un ladro (il riciclaggio di denaro con società offshore grazie all’appoggio della banca Usa Riggs svelato nel 2004, in un rapporto nel quale il nome di Pinochet appare come quello di Daniel Lopez).

Insieme al dittatore (Jaime Vadell) ci sono il fedelissimo maggiordomo russo bianco vampiro anche lui grazie al morso del padrone, e la terribile moglie Lucia Hiriart Rodriguez (Gloria Munchmeyer) che lui rifiuta di mordere frustrando la sua brama di eternità e potere. E i cinque figli, stupidi, cinici e cattivi, attaccati ai soldi, vogliono la loro parte, si vantano di vivere con quanto il padre ha accumulato derubando il Paese grazie alla complicità di America e Europa. Per fare ordine hanno chiamato una giovane contabile che è in realtà una suora esorcista, agente di quella stessa Chiesa che è sempre stata accanto al generale, e adesso a sua volta cerca soldi, lei è giovane, bella, come non può destare le fantasie di un vampiro?

LARRAÍN per questa sua storia della dittatura declinata al presente, un’architettura gotica di realismo magico, commedia e humor nero nella texture densa del bianco e nero di Ed Lachmann, ricostruisce con puntualità i fatti storici, dal golpe contro Allende l’11 settembre del 1973 con cui Pinochet conquistò il potere alle trame di alleanze potenti, gli Usa di Nixon per primi – del resto: non si erano formati alla scuola di Friedman i suoi Chicago Boys che amministravano il liberismo feroce delle economie nel Paese? Ma anche il legame con Thatcher – qui specialissimo però non spoileriamo – la massoneria e la chiesa, quel sistema di relazioni che gli hanno permesso di rimanere sempre lì (è o non è un vampiro?) anche dopo il referendum che ne aveva decretato la fine, di sfuggire a pene e a processi, di essere «immune» sempre e comunque nonostante i crimini contro l’umanità e i saccheggi miliardari. Che non hanno smesso di farlo amare (ai suoi funerali c’erano 60mila persone) trasformandolo malgrado tutto in leggenda.

Ed è proprio su questo aspetto «popolare» che lavora il regista – anche autore della sceneggiatura insieme a Guillermo Calderon – nella sua «trasfigurazione» vampiresca del dittatore, in fondo l’unica possibile capace di parlare al presente, intrecciando realtà storica e contemporanea agli elementi fantastici che diventano qui assai «reali». E tra vampiri a caccia di giovani cuori da divorare e monache volanti (è la brava attrice Paula Luchsinger) coglie quella natura immortale di un liberismo e di una destra che si trasformano, si rigenerano, mutano sembianze, si mimetizzano, affascinano, stordiscono, seducono interessi personali e collettivi tutti disposti a distogliere gli occhi dalla loro natura.

Il Cile che prende forma in questa bolla vampiresca da cui pipistrelli-generali partono sorvolando le sagome dei grattacieli di nuove ricchezze ricorda quello illuminato con precisione nei suoi ultimi film da Patricio Guzman – in particolare in Il mio Paese immaginario – dove soccombono i più fragili in favore di multinazionali e grandi capitali, e la protesta è repressa da una polizia brutale.

Larraín in questo suo «gioco» serissimo rimane però dentro al suo dispositivo narrativo (di cui forse non sempre mantiene pienamente il controllo) quell’universo parallelo di un’eternità mutevole, dei sotterranei di un potere che beve sangue, di una rapacità che condanna i propri epigoni per esaltare coloro che ne sono invece i primi attori. E che ricomincia sempre e comunque, negli stessi luoghi e altrove, in una inquietante circolarità. Il futuro è incerto, il presente scivoloso, per questo è fondamentale conoscere a fondo senza mistificarlo ciò che lo ha preceduto.

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