Pubblicare un libro nel 1947 scegliendo di intitolarlo la sconfitta (la défaite nell’originale) denota un notevole coraggio: all’epoca il termine evocava immediatamente la storica disfatta che aveva portato all’occupazione e al regime di Vichy e poteva scoraggiare molti francesi, ben poco vogliosi di riandare ad anni così tragici. Ma, al di là della copertina si scopre il racconto autobiografico di una storia tutta interiore, di una sconfitta che non ha nulla a che vedere con la Storia, capace di immergere il lettore nel mondo della Parigi del primo dopoguerra, quelle années folles in cui la capitale francese visse un momento di straordinaria effervescenza artistica e dove le avanguardie si proposero di «cambiare la vita», rifiutando ogni compromesso con la rispettabilità borghese.

Pierre Minet, l’autore di questa notevole autobiografia – La sconfitta (traduzione e cura di Stefania Ricciardi, Neri Pozza, pp. 256, € 18,00) fu tra i collaboratori di una delle numerose riviste d’avanguardia che spuntarono in quegli anni, «Le Grand Jeu», fondata nel 1928 da un gruppo di giovanissimi, poco più che adolescenti, con il proposito di intraprendere una ricerca poetica ed esistenziale che solo per alcuni versi si avvicina a certe pratiche del surrealismo, distanziandosene invece nella ricerca di un’ascesi interiore, finalizzata a portare all’assoluto.

Sfidare la follia
«Il grand jeu cerca l’essenziale. L’essenziale non è ciò che si immagina. L’occidente contemporaneo ha dimenticato questa verità così semplice e per ritrovarla bisogna sfidare la morte, la follia…» si legge nel primo numero della rivista. Anche se oggi è ben poco studiata persino in Francia, fu un tentativo così serio da preoccupare Breton, che si adoperò senza successo per dividere il gruppo. Minet non dice nulla di queste beghe fra letterati, probabilmente perché equivarrebbe, per lui, a tradire il senso della sua ricerca.

Va invece all’essenziale, e narra del suo itinerario interiore, che da un’infanzia provinciale e molto cattolica lo portò al rifiuto della normalità borghese. A sedici anni fuggì a Parigi, dove scoprì la notte, e con essa la libertà. «Avrei dovuto soffrire molto, subire lo strazio della fame e della mancanza di sonno, non essere più io stesso che un sogno, portare le stimmate della rivolta, avere una concezione divorante della libertà per unirmi finalmente a lei fino a non poterla più distinguere da me».

Senza casa, mangiando solo quando poteva permetterselo, Minet vagava nelle notti di Parigi senza mai fermarsi: minorenne, rischiava l’arresto e il rientro forzato in famiglia se lo avessero colto a dormire all’aperto. Quando aveva qualche soldo si rifugiava nei locali di Montmartre, il celebre Lapin agile, per esempio. Poi, le notti delle Halles, tra distese di carote e montagne di arance, e quelle di un Quartiere Latino ormai scomparso. E soprattutto le notti di Montparnasse, «la Versailles dello spirito», torre di Babele edificata da immigrati di tutti i paesi che, negli anni tra il 1926 e il 1930, attingevano a ciò che Minet definisce la vita nuda: «la vita senza nulla addosso, ripulita da ogni trucco, da ogni deformazione, (…) di una semplicità abbagliante, quasi insostenibile».

La poesia, una voce
Enfant terrible di Montparnasse, Minet si descrive senza compiacimenti e senza la minima vanità letteraria; del resto giudica mediocri, e talvolta orrende, le sue opere. Gli amici del bell’adolescente biondo con gli occhi azzurri lo accostano a Rimbaud, ma lui non si fa illusioni. «Il mio nulla non è d’oro. Solo volgare zinco». La sua fisionomia intellettuale non era quella del poeta veggente: ciò che contava per lui era solo il raggiungimento di quella purezza assoluta della vita che aveva forse posseduto per qualche istante, ma che non aveva avuto la coerenza e la forza di salvaguardare. La sua sconfitta è questa.

C’è un forte afflato spirituale nel racconto di questo tradimento, la radice di una religiosità che non lo abbandona: anche al culmine della rivolta, la magia del Natale opera così fortemente su di lui da indurlo a tentare un ritorno in famiglia, dopo la prima fuga, per ritrovare «la cara eccitazione familiare, il volto intenerito di mio padre». Ma non dura, e ritorna a Parigi e alla sua vita notturna piena di luce.

Poi, l’amore travolgente per una donna (che non nomina nel libro, la pittrice americana Lilian Fisk) e la malattia che lo colpisce dopo anni di stenti e di sregolatezze, finirono per farlo rientrare nell’alveo della vita cosiddetta adulta, la vita che imprigiona come un carcere: «La mia libertà perduta. La poesia assente da me per sempre. La poesia non come un orpello, ma come una voce, la voce interiore, la parola dell’anima».

Molto opportunamente, la traduttrice e curatrice Stefania Ricciardi inserisce in appendice una serie di brevi testi che hanno accompagnato nel tempo le edizioni (quattro in tutto) che La Sconfitta ha conosciuto in Francia dal 1947 al 2010. Tra quelle pagine Minet riflette progressivamente sullo statuto del suo testo, definendolo apertamente una confessione. Vi si interroga sulle ragioni che lo hanno indotto a scriverlo, e vi si accusa in quella messa in scena giudiziaria che è tipica del genere, a partire dalle Confessioni di Rousseau: l’autobiografia come processo al proprio autore «per il male che facevo, per il bene al quale aspiravo».

Senza compiacimenti narcisistici e lontano da ogni forma di compromesso, Minet si condanna per la sua progressiva accettazione della realtà ordinaria, per non aver avuto la forza e il coraggio di andare fino in fondo. Il suo – scriveva Roberto Bazlen – è un libro «che va nelle ossa».