La foto simbolo della giornata di ieri è quella che ritrae Toeolesulusulu Cedric Schuster, ministro dell’Ambiente di Samoa e portavoce dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, che parla ai giornalisti con gli occhi gonfi di lacrime. Dopo una giornata di attesa, la presidenza di Cop28 – il tavolo negoziale sul clima delle Nazioni unite riunito a Dubai – ha presentato la sua ultima bozza di accordo. E su tutti i dossier si registrano passi indietro.

SPARISCE IL PHASE-OUT, l’abbandono dei combustibili fossili. Al suo posto un barocco invito alla riduzione fino al raggiungimento delle emissioni nette zero. Il phase-out era la linea rossa che molte Parti, compresa l’Europa, avevano tracciato nei giorni scorsi. Non va meglio al resto del cosiddetto pacchetto energia. Sul carbone si rimane alla locuzione già usata a Glasgow due anni fa, quel phase-down, riduzione, del solo carbone unabated, cioè non accompagnato da sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Una vittoria dei grandi consumatori come Cina e India, e un sostanziale stallo. Rimangono in piedi solo triplicazione dell’uso delle rinnovabili e raddoppio dell’efficienza entro il 2030.

Se questa bozza diventasse definitiva, passerebbe la linea Opec, che solo pochi giorni fa invitava i Paesi produttori di petrolio a non accettare compromessi sul phase-out. Vincerebbero Arabia saudita, Russia, Iran e perderebbero Unione europea, Alleanza delle nazioni latine indipendenti (che comprende paesi come Cile e Colombia) e Alleanza delle piccole isole del Pacifico.

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Il secondo capitolo del negoziato è rappresentato dall’adattamento, e più precisamente dai fondi necessari a preparare i territori tanto alla transizione quanto agli effetti della crisi climatica. Il Sud globale voleva impegni concreti sul finanziamento delle infrastrutture verdi da parte dei paesi industrializzati. Impegni che non sono arrivati. Qua la vittoria è dei paesi ricchi – soprattutto degli Stati uniti, accusati da attivisti ed osservatori di boicottare il dibattito sul tema – mentre a perdere è il G77, la maxi-alleanza che riunisce più di 100 paesi in via di sviluppo.

PER UN RISULTATO SIGNIFICATIVO alla Conferenza di Dubai serviva uno scambio. I paesi industrializzati dovevano dimostrarsi disposti a finanziare la transizione e l’adattamento nel Sud globale – sia con obiettivi chiari da inserire nella risoluzione finale, sia con stanziamenti collaterali. I paesi in via di sviluppo, in cambio, avrebbero dovuto acconsentire a un compromesso ambizioso sulla mitigazione e il tanto desiderato phase-out. Solo in questo modo, dicono da giorni gli analisti, si sarebbe potuto unire la maggioranza dei paesi e affrontare il blocco degli irriducibili capitanato dall’Arabia saudita. Niente di tutto questo è successo. «Gli Stati uniti si sono esposti pubblicamente contro l’obbligo per i paesi industrializzati di contribuire alla finanza climatica. Europa e Regno unito si sono nascosti dietro questa posizione. Senza finanziamenti per molti paesi in via di sviluppo la transizione è impossibile» è la lettura di Brandon Wu di ActionAid.

Il risultato è un accordo che non promette nessun passo avanti nella lotta contro la crisi climatica. I commenti di attivisti e analisti sono allineati. Per il Wwf la bozza è un «disastro». Il think tank Ecco parla di «una lista di Natale confusa che non aiuta nessuno e fa pienamente il gioco dei paesi produttori di oil&gas, lasciando i più vulnerabili a mani vuote». Il commento più duro viene dall’ex presidente statunitense Al Gore: «Cop28 è ormai sull’orlo del fallimento. Questa bozza sembra scritta dall’Opec parola per parola».

L’ARRIVO DEL DOCUMENTO è stato accolto con rabbia all’Expo Centre di Dubai. Ma la partita non è ancora chiusa, e molti attori sembrano pronti a giocarla fino in fondo. Le isole del Pacifico hanno indetto una drammatica conferenza stampa in cui, tra le lacrime, i ministri hanno promesso battaglia. A poca distanza ha risposto l’Unione europea. «Ci sono elementi del testo semplicemente inaccettabili, siamo delusi» è stata la reazione della ministra spagnola Teresa Ribera e del commissario Wopke Hoekstra. Parole dure sono arrivate da paesi come Ciad e Colombia.

In serata è giunta anche la nota degli Stati uniti, che si aggiungono timidamente al fronte dei delusi. La sezione sulla mitigazione deve essere «sostanzialmente rafforzata» scrive Washington, con toni decisamente più concilianti dell’alleato europeo. No comment dalla Cina, che potrebbe scoprire le sue carte nella seduta plenaria.

LA GIORNATA CHE COMINCIA si preannuncia di scontro tra le Parti. La chiusura ufficiale della Conferenza, prevista per oggi alle 11:00, è scontato venga rimandata, Le Cop ci hanno abituati a colpi di scena dell’ultimo minuto, e molto è ancora possibile. Rimane la distanza tra l’urgenza della crisi climatica e il processo negoziale. Così come rimarranno le parole di John Silk, ministro dell’Ambiente delle Isole Marshall, che ha chiuso il suo breve discorso alla stampa con la frase «non andremo silenziosamente nelle nostre tombe d’acqua».