Perché la riforma costituzionale di Renzi non fa scuola
Stato/Regioni Un ritorno al passato per l’istruzione e un vulnus all’art. 5 della prima parte della Costituzione, contrariamente a quello che dichiara lo schieramento del Sì
Stato/Regioni Un ritorno al passato per l’istruzione e un vulnus all’art. 5 della prima parte della Costituzione, contrariamente a quello che dichiara lo schieramento del Sì
La prima modifica della Costituzione del 1948, nel settore istruzione, avvenne nel 2001. Riforma che prevedeva, come esclusiva competenza della legislazione statale «la determinazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale e le norme generali dell’istruzione». Diventava materia concorrente quella dell’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e competenza regionale esclusiva la legislazione su istruzione e formazione professionale.
Una riforma che nasceva dalla volontà di potenziare il ruolo delle Regioni e di garantire forme di decentramento e di autonomia. Sollecitava un loro impegno, anche legislativo, attraverso le cosiddette competenze concorrenti, che hanno però aperto la strada a numerosi conflitti e ricorsi presso la Corte costituzionale.
Ci fu poi la riforma costituzionale del governo Berlusconi del 2006, che assegnava, in alcuni settori, più forti prerogative anche legislative alle Regioni. In nome della devolution si apriva la strada a una frammentazione del sistema e alle ‘scuole etniche’ di bossiana memoria, mentre non risultava chiaro se lo Stato mantenesse una funzione persino sulle norme generali. Sembrava invece che si aprisse la strada a sistemi diversi, a seconda delle scelte regionali. Riforma, per fortuna, bocciata dal voto popolare in modo netto e inequivocabile.
È dunque sul testo del 2001, che insiste la modifica costituzionale, oggi sottoposta a referendum.
Che ci fosse bisogno di far chiarezza giuridica e normativa sulle competenze concorrenti è fuor di dubbio, ma il nuovo art. 117 sembra destinato ancora una volta a lasciare nell’indeterminatezza il «chi fa che cosa». Il principio base della riforma non è infatti quello di garantire un equilibrio tra i ruoli dei diversi livelli istituzionali, ma di affermare sull’istruzione, così come in ogni campo (si pensi all’ambiente e alle scelte sulle grandi opere) una vocazione neo-centralistica.
Si sottrae alle regioni la competenza esclusiva persino sull’Istruzione e formazione professionale, riassegnando allo Stato ogni prerogativa sulle «disposizioni generali e comuni» ad esse relative.
Alle stesse resta una competenza residuale «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato (art.117,c.3)» e «l’organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale, i servizi scolastici, la promozione del diritto allo studio, anche universitario».
Ecco che ritornano, di fatto, le competenze concorrenti, lasciando in piedi tutti i possibili contenziosi. Questo, mentre un lungo percorso di sentenze della Corte su ricorsi fatti dalle Regioni aveva cominciato a definire un quadro normativo più chiaro. Ribadendo che spettano allo Stato le «norme generali», che disegnano la struttura portante del sistema, ma affermando la necessità della legislazione regionale, «per collegare esigenze di uniformità e esigenze autonomistiche» .
Spetterà, con queste modifiche, ancora alle Regioni «costruire» il piano di dimensionamento scolastico, d’intesa anche con Comuni e Provincie? Collegare la fisionomia della scuola al suo territorio? Resterà la competenza sulla formazione professionale, rispetto alla quale, nel testo della legge, sembrerebbe che le Regioni abbiano solo potestà di «organizzazione dei servizi»?
Insomma, un clamoroso passo indietro verso l’onnipotenza ministeriale, tanto deprecata per decenni.
Non mancano poi i paradossi. Infatti, si lasciano inspiegabilmente intatti i poteri delle Regioni a statuto speciale.
E, ai sensi dell’art. 116, le singole Regioni «che mostrino capacità di governo e di gestione e ne faranno richiesta potranno ottenere su questa materia ulteriori competenze legislative, regolamentari e amministrative con apposita legge dello stato». Insomma se da un lato assistiamo al ritorno di un forte centralismo statale, dall’altro si disegna un regionalismo a geometria variabile.On demand.
Si finisce col deprimere un obiettivo di perequazione del sistema formativo su tutto il territorio nazionale, fortemente invocato dai principi della nostra Costituzione, che andrebbe al contrario promosso e incentivato.
Oltretutto non si fa chiarezza su molte questioni. In particolare per quel che riguarda gli istituti professionali quinquennali (statali), all’interno dei quali oggi insiste una competenza regionale sui percorsi triennali di Istruzione e formazione professionale (IFP).
Si dice che «su questi aspetti ci saranno poi leggi specifiche, che chiariranno e disegneranno meglio il sistema» .
Ma il prerequisito di ogni intervento su un testo costituzionale – giusto o sbagliato che sia – non dovrebbe essere proprio la chiarezza?
E viene in mente lo stile limpido della Costituzione del ’48.
Insomma né si migliora, né si semplifica. E il contenzioso e i ricorsi tra Regioni e Stato sono destinati ancora una volta a replicarsi.
Questo nel nome di un neo-centralismo, fondato sulla clausola di supremazia dello Stato.
È un passo del gambero. Un ritorno al passato. Si tratta di un vulnus all’articolo 5 della prima parte della Costituzione. Che recita che è lo Stato che deve adeguare i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
E questo con buona pace di chi dice che la prima parte della Costituzione non viene toccata.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento