Come scrittore, nel mio rapporto con ciò che succedeva fuori di me, mi sono sempre tirato per la giacca da due direzioni.

La prima segue l’istinto, quasi fisico prima ancora che intellettuale, di scrivere di getto i miei pensieri su ciò che vedo. È un istinto che mi fa portare la mano alla pistola, così si può dire: tiro fuori l’agendina, prendo nota, do forma a pensieri, ipotesi di frasi, trascrivo nomi e numeri come li vedo. La mia agenda dà conto di quella furia viscerale.

Mi è molto facile, a posteriori, individuare quei momenti tra le pagine: la grafia è percorsa da una sorta di scarica elettrica, è quasi indecifrabile, e il tremito testimonia una sorta di febbre della realtà.

Quel primo istinto è l’istinto del polemista che è in me, cresciuto leggendo le Lettere luterane, sottolineando fino a incidervi un solco gli Scritti corsari, e in fondo aggiustando le diottrie del mio sguardo sul mondo basandomi su alcuni modelli. Pasolini, per l’appunto, fu il primo.

Dopo avere annotato lacerti di frasi, il polemista che è in me si aggira camminando inquieto, e dà forma a interventi che sulle prime si presentano con grande lucidità. Ho chiaro l’inizio, ho chiarissimo il punto polemico, lo vedo già in pagina.

Eppure poi tutto si complica, il pensiero si ingarbuglia, il polemista che è in me finisce in un territorio a lui sconosciuto: tutto è molto più complesso di come mi era parso. E allora gli appunti si distendono più pacati, le frasi si fanno più lunghe. E il tempo passa, passano i giorni, passano le settimane, spesso i mesi.

Poi in qualche caso, finalmente intervengo davvero, quasi sempre fuori tempo massimo. Pasolini, alle mie spalle, se la ride, nel frattempo ha scritto quindici interventi.

Il mio secondo istinto, quello che quasi sempre prevale, è quello letterario. Che dice: «Aspetta, lascia che la realtà faccia i conti con il silenzio, non affrettarti a imbalsamare tutto con parole dirette in un solo senso». È questo il territorio in cui mi perdo più di frequente, il labirinto da cui non c’è uscita, la complessità che non si scioglie in una opinione ma cerca la visione che tutto tiene insieme, anche se solo a frammenti. Più vicino a Virginia Woolf che a Pasolini, più ai dublinesi di Joyce, all’agrimensore di Kafka.

L’istinto della letteratura dice sostanzialmene «Taci» e la realtà farà fermentare la visione, e la visione sarà il filo di Arianna che non porta a una uscita bensì a ridisegnare il labirinto.

Seguendo il primo istinto ho immaginato mille interventi a caldo e ne ho scritti forse dieci, nemmeno memorabili. Con il secondo ho scritto alcuni libri, e ogni volta ci ho messo anni, mai meno di uno, non di rado più di tre.

Quale sia il valore dei libri non sta a me dirlo, ma certo c’è disegnato il labirinto da cui non sono uscito, dentro vi sono le tracce di tutto quel mondo preso di furia e buttato dentro la cesta degli appunti, nella mia agenda. E poi impastato in un mondo altro, in cui la strada e il silenzio, l’intimità di un pensiero privato e l’esplosione della realtà stavano insieme: impastate, appunto, dunque irriconoscibili.

Una cosa è certa. Tutti gli interventi che non ho scritto ma solo favoleggiato, immaginato già impaginati, erano per il manifesto.

Il polemista che vorrei essere e non sono ha scritto settimanalmente sul manifesto, perché quella del manifesto è la comunità cui mi sento di appartenere e a cui vorrei dare il mio contributo corsaro.

Perché lo considero il miglior quotidiano italiano, e per questo gli auguro e ci auguro almeno altri cinquant’anni anni di vita attiva. Purtroppo lo scrittore che sono ha rimuginato molto e scritto pochissimo, e di questo chiedo pubblicamente scusa ai lettori del manifesto, e alla redazione, sempre pronta ad accogliere ogni mia parola.

l cittadino che sono, e che ora vive in Texas, ha nei confronti del manifesto solo una gratitudine infinita. Grazie alle sette ore di fuso orario che lo separano dall’Italia, ogni giorno alle 17 si siede al computer e scarica il giornale che sarà in edicola il giorno dopo.

E di questo piccolo grande privilegio, ringrazia l’asse dello sgangherato pianeta in cui ci è capitato di vivere.