Khan Yunis, i soccorsi in un palazzo distrutto Ap/Ahmad Hasaballah
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Per un atto di umanità e di lungimiranza politica

Khan Yunis, i soccorsi in un palazzo distrutto – Ap/Ahmad Hasaballah

Ci vuole un «varco» La qualificazione dell’aggressione di Hamas come un atto di guerra, anziché come un crimine efferato da combattere con gli strumenti del diritto, e la conseguente risposta israeliana della guerra hanno già prodotto i loro terribili effetti

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 22 ottobre 2023

La qualificazione dell’aggressione di Hamas come un atto di guerra, anziché come un crimine efferato da combattere con gli strumenti del diritto, e la conseguente risposta israeliana della guerra hanno già prodotto i loro terribili effetti: l’imposizione a un milione di palestinesi di lasciare le loro case e di affollarsi al sud del loro minuscolo territorio, l’assedio di Gaza che sta lasciando senza cibo né acqua due milioni di persone, i bombardamenti sulle popolazioni civili che hanno già provocato più di 4.000 morti, di cui 1.400 bambini, e decine di migliaia di abitazioni distrutte.

E’ una risposta ottusa ancor prima che illecita. La guerra è soltanto tra Stati: “publicoum armorum contentio” la definì Alberico Gentili nel suo De iure belli libri tres, più di quattro secoli fa, e altrettanto hanno sempre fatto i teorici del diritto internazionale. Chiamare guerra le atrocità del 7 ottobre equivale ad elevare Hamas al livello di un pubblico esercito. Rispondere con i bombardamenti sui civili vuol dire abbassare lo Stato al livello dei terroristi e compattare con Hamas il popolo palestinese.

Israele avrebbe ancora un modo per rompere il legame tra Hamas e il popolo palestinese, per non confondere i due milioni di persone che vivono a Gaza con i criminali e recuperare l’identità di uno Stato democratico. Se considerasse l’aggressione del 7 ottobre non come un atto di guerra, ma come un crimine orrendo non condivisibile da milioni di palestinesi, potrebbe compiere un atto di straordinaria lungimiranza e intelligenza politica: l’apertura di un varco nel confine con Gaza, onde consentire l’ingresso in Israele a tutti i palestinesi chiaramente disarmati, primi tra tutti i bambini e le donne, ricoverare i malati e i feriti negli ospedali ed offrire agli sfollati, sia pure provvisoriamente, cibo, acqua, medicinali e assistenza.

Sarebbe, se fosse possibile illudersi, un atto magnanimo di umanità, tanto più nobile e inaspettato in quanto in risposta a un crimine feroce che tanto sgomento e dolore ha suscitato. Sarebbe la dimostrazione, oggi più che mai necessaria, dell’asimmetria radicale tra la disumanità incivile degli atti terroristici e la civile umanità delle istituzioni pubbliche. Soprattutto sarebbe un atto politico di enorme efficacia. Avrebbe l’effetto, più di qualunque discorso, di dissociare radicalmente il popolo palestinese da Hamas, e perfino di disarmare – politicamente se non militarmente – le organizzazioni criminali che ne rivendicano la rappresentanza. Favorirebbe la liberazione degli ostaggi. Varrebbe a contraddire la logica distruttiva del nemico. Salvando decine, forse centinaia di migliaia di palestinesi innocenti, varrebbe a dissociare il popolo israeliano dalle politiche disumane e irresponsabili portate avanti fino a ieri da Netanyahu. Sarebbe il segno di una svolta, di un primo passo verso la pace, altrimenti irraggiungibile, e comunque verso una soluzione politica del dramma. La spirale della vendetta, d’altro canto, può essere rotta soltanto da chi è più forte, e la sua rottura sarebbe la vera manifestazione di forza del governo israeliano, incomparabilmente maggiore di qualunque successo militare.

E invece, come tutte le risposte razionali, questa ipotesi è totalmente irrealistica, null’altro che un sogno. Del resto l’analfabetismo istituzionale è generalizzato: tutti – esponenti politici e commentatori – parlano dell’aggressione di Hamas come di un atto di guerra, e non come di un atto terroristico, ed anzi non comprendono neppure la necessità vitale di distinguere tra le due cose: esattamente come dopo l’11 settembre, quando alla strage criminale delle due Torri, subito chiamata guerra, si rispose con due guerre e centinaia di migliaia di morti tra le popolazioni civili, anziché con la mobilitazione delle polizie di tutto il mondo per identificare e punire i colpevoli.

Ovviamente il linguaggio della guerra, benché sia esattamente ciò che vuole il terrorismo, che come “guerra” si autorappresenta e legittima i suoi massacri, è assai più congeniale del linguaggio del diritto alla demagogia dei Bush e dei Netanyahu. Ma è altrettanto certo che il linguaggio e la pratica della guerra non potranno che avvelenare ulteriormente la questione palestinese, infiammare i conflitti identitari in forme sempre più esplosive, alimentare i fondamentalismi e rendere senza fine la spirale dell’odio e della vendetta, al termine della quale ci saranno solo rovine e la sostanziale sconfitta di entrambi i popoli.

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