Per Trump è «ovvio» consegnare Gerusalemme a Israele
Israele/Palestina Il presidente Usa ha mantenuto la promessa fatta a Israele. «Usa non più mediatori, Gerusalemme sarà la capitale eterna della Palestina» gli risponde Abu Mazen. Ondata di condanne e proteste da ogni angolo del mondo per un passo che rischia di far sprofondare il Medio oriente oltre a negare i diritti dei palestinesi
Israele/Palestina Il presidente Usa ha mantenuto la promessa fatta a Israele. «Usa non più mediatori, Gerusalemme sarà la capitale eterna della Palestina» gli risponde Abu Mazen. Ondata di condanne e proteste da ogni angolo del mondo per un passo che rischia di far sprofondare il Medio oriente oltre a negare i diritti dei palestinesi
Nel settembre del 2000 fu una “passeggiata”, quella dell’ex premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, ad innescare la seconda Intifada palestinese e a segnare il destino della pace di Oslo firmata nel 1993 da Israele e l’Olp. Diciassette anni dopo un’altra “passeggiata”, quella di Donald Trump sul diritto internazionale e sulla risoluzione 181 dell’Onu, ha deciso il destino di Gerusalemme. Il riconoscimento esplicito che Trump ha fatto di Gerusalemme capitale di Israele incide sulla pietra il futuro della città, offerta su di un piatto d’argento a Israele. Per la Casa Bianca la sovranità sulla città delle tre fedi monoteistiche, dalla storia millenaria, che tante suggestioni e passioni genera in milioni di persone in tutto il mondo, appartiene solo a Israele. È in malafede chi descrive il passo di Trump come “simbolico”. Al contrario è sostanziale e inserito nel nuovo scacchiere regionale che l’Amministrazione Usa intende costruire con i suoi principali alleati, Israele e Arabia saudita, e sul quale i diritti dei palestinesi sono una pedina insignificante.
Trump ha provato a spiegare la sua decisione come la constatazione di una realtà consolidata, come un passo che gli Usa avrebbero dovuto muovere da lungo tempo. «Riconosciamo l’ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Non è altro che un riconoscimento della realtà», ha detto aggiungendo che gli Usa restano «impegnati per facilitare un accordo di pace accettabile da entrambe le parti». E si è vagamente espresso a favore di «una soluzione a Due Stati» se, ha subito precisato, «concordata dalle parti». I suoi predecessori, ha aggiunto, hanno ripetutamente congelato il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, deciso dal Congresso, con l’idea che ciò avrebbe favorito il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Secondo Trump questa politica è stata fallimentare ed è venuto il momento di cambiare approccio. Ha perciò annunciato l’avvio dei lavori per la costruzione della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme, che secondo il presidente sarà «un magnifico tributo alla pace». Ha espresso sostegno al mantenimento dello status quo dei luoghi santi di Gerusalemme, e, infine, dopo aver appiccato il fuoco della rabbia di palestinesi, ha lanciato un appello alla moderazione. «La pace non è mai al di fuori della portata di chi vuole raggiungerla, quindi oggi chiediamo calma, moderazione e tolleranza affinchè ciò prevalga su chi semina odio. Dio benedica gli israeliani, Dio benedica i palestinesi».
Recitare il ruolo del moderato e pacifista è stato facile per il primo ministro israeliano Netanyahu sazio di una vittoria decisiva. «È un giorno storico» ha commentato intervenendo in tv subito l’annuncio fatto dal presidente Usa. «La decisione di Trump – ha aggiunto Netanyahu – è un passo importante verso la pace, perché non ci può essere alcuna pace che non includa Gerusalemme come capitale di Israele». E in linea con le parole dell’alleato americano ha assicurato che «non ci sarà alcun cambiamento nello status quo dei luoghi santi. Israele garantirà sempre libertà di culto a ebrei, cristiani e musulmani». Frasi con ogni probabilità non indirizzate ai palestinesi ma ai nuovi alleati arabi, alle monarchie sunnite. Gerusalemme ormai è nostra, ha fatto capire Netanyahu, accettatelo e noi non vi imbarazzeremo davanti alle vostre popolazioni. Anzi collaboreremo ancora più convinti contro il nemico comune, l’Iran. Poi è stata solo festa, simboleggiata dalle bandiere di Israele e Stati Uniti proiettate sulle mura antiche della città vecchia di Gerusalemme, occupata da Israele nel 1967. In quello stesso momento migliaia di palestinesi, soprattutto a Gaza, manifestavano contro gli Stati uniti e Israele. Oggi è prevista un’altra giornata “della rabbia” e di scioperi di protesta ma le ore più calde delle proteste si vivranno con ogni probabilità domani, dopo le preghiere islamiche del venerdì.
In tarda serata è intervenuto il presidente palestinese Abu Mazen, apparso esausto davanti alle telecamere. «La decisione di Trump in contrasto con le risoluzioni internazionali equivale a una rinuncia da parte degli Stati uniti del ruolo di mediatori di pace» ha affermato accusando la Casa Bianca di aver fatto un «regalo» a Israele che ora, ha previsto, si sentirà incoraggiato a proseguire l’espansione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. Poi ha proclamato perentorio che «Gerusalemme rimarrà la capitale eterna dello Stato di Palestina». Simili le dichiarazioni dei maggiori esponenti dell’Olp. Non sono molte le carte a disposizione di Abu Mazen. Sente però di dover insistere sull’unità dei palestinesi. «L’unità – ha detto prima del discorso di Trump – è la vera risposta a tutti i tentativi volti a violare i nostri diritti». Ma il suo tempo forse è scaduto. Nello stesso Fatah, il suo partito, cresce il dissenso verso la linea della moderazione. I prossimi mesi saranno decisivi.
Dichiarazioni di condanna o di critica dell’annuncio di Trump su Gerusalemme sono giunte da ogni parte del mondo, dall’Unione europea alla Russia, dalla Giordania alla Turchia, fino al Vaticano. «Tutte queste proteste sono come gli avvertimenti per la salute dei fumatori sui pacchetti di sigarette che intanto si continuano a fabbricare», ha commentato con amarezza il poeta palestinese Ibrahim Nasrallah.
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