Il lavoro, posto alle fondamenta della Repubblica, non è mai stato così fragile. Questa fragilità fa vacillare l’intero edificio costituzionale, visto che è proprio il lavoro a rappresentare, per la Costituzione italiana, la porta d’accesso a una cittadinanza intesa in senso pieno. Oggi, invece, è una porta che si apre troppo spesso sul baratro.

Lo attesta la scia di sangue che percorre i luoghi di lavoro, dal nord al sud Italia, dalla Esselunga di Firenze, dove il crollo di un cantiere è costato la vita a cinque operai la scorsa settimana, fino alla Stellantis di Pratola Serra, in provincia di Avellino, dove ieri ha perso la vita un manutentore, ancora una volta dipendente di una ditta esterna.

Intanto, persino la Corte di Cassazione ha dovuto riconoscere che si può essere poveri pur lavorando: la realtà dei fatti smentisce, dunque, di continuo che il lavoro permette di accedere a un’esistenza libera e dignitosa, come prevede l’articolo 36 della Costituzione.

In questo quadro drammatico, si potrebbero invocare più controlli, denunciare molti limiti del sistema giuridico, rivendicare la centralità della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, formulare molte proposte. Il rischio è, tuttavia, quello di eludere il nodo fondamentale che nessun governo sembra disposto a sciogliere, al di là di proclami e ammissioni: le condizioni di lavoro negli appalti.

Inutile girarci attorno: nelle catene degli appalti e dei subappalti, sia pubblici sia privati, alberga la quasi totalità del lavoro povero. Lì si addensano gli incidenti sul lavoro di maggior gravità, spesso mortali. Lì si concentrano gli abusi, le irregolarità e, in qualche caso, persino le infiltrazioni della criminalità organizzata.

Se nessuno ha, fino a qui, voluto sciogliere questo nodo, ora è venuto il momento di tagliarlo, con una soluzione che presenta tre vantaggi fondamentali: è, al contempo, semplice, utile e giusta.

Si tratta di reintrodurre il principio di parità di trattamento economico e normativo tra dipendenti dell’appaltante – ossia l’impresa principale che affida a un soggetto terzo un segmento del ciclo produttivo o un servizio – e dipendenti dell’appaltatore (e di eventuali subappaltatori). Si tratta, in altri termini, di dire alle imprese che possono «esternalizzare» segmenti della propria attività solo in un’ottica di specializzazione qualitativa, mai per mere esigenze di riduzione dei costi.

Insomma, se il lavoro in appalto gode delle medesime condizioni economiche e normative del lavoro svolto alle dirette dipendenze dell’impresa principale, viene meno l’interesse di quest’ultima a procedere alla esternalizzazione, salvo che la qualità del servizio reso da un appaltatore altamente specializzato sia così elevata da giustificare un aggravio dei costi rispetto a quelli che verrebbero sopportati svolgendo il lavoro con propri dipendenti.

È persino stupefacente che una soluzione così semplice ed efficace rimanga completamente estranea all’agenda di questo governo, essendo stata caldeggiata da importanti attori istituzionali cui nessuno potrebbe rimproverare partigianeria o bolscevismo. Una prima volta, la degenerazione del sistema degli appalti è stata oggetto di attenzione da parte della Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, la quale ha dedicato al fenomeno uno specifico dossier intitolato Appalti e conflitto collettivo: tendenze e prospettive, invitando a prendere in considerazione, tra le soluzioni idonee a contrastare il cosiddetto dumping salariale, la regola della parità di trattamento tra dipendenti dell’appaltante e dell’appaltatore, un tempo prevista dall’articolo 3 della legge numero 1369 del 1960, abrogata nel 2003 dalla cosiddetta riforma Biagi. Una seconda volta, ha fornito indicazioni analoghe il Cnel presieduto da Renato Brunetta, proprio nel recentissimo documento del 12 ottobre scorso contenete Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, utilizzato per bocciare l’iniziativa delle opposizioni in tema di salario minimo legale. Non fare né l’una né l’altra cosa sarebbe davvero troppo persino per il governo Meloni. Ma in mancanza di una presa di parola pubblica, forte e unitaria, c’è da scommettere che andrà così.

Peraltro, la tecnica di tutela appena suggerita non è sconosciuta al legislatore odierno, che l’ha adottata, nel vecchio e nel nuovo Codice degli appalti pubblici, impegnando il subappaltatore (ma solo quest’ultimo) a «riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale» (articolo 119, comma 12, decreto legislativo numero 36 del 2023).

Tale regola andrebbe estesa anche alle condizioni di lavoro presso il primo appaltatore e, soprattutto, reintrodotta nel settore privato.

Non ci sono ostacoli, al di fuori della colpevole inerzia di governo e parlamento. Ma è un’inerzia che una Repubblica «fondata sul lavoro» non può più sopportare.