Per la pace, investimenti dello Stato innovatore
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Per la pace, investimenti dello Stato innovatore

Criticare il capitalismo Non solo recuperare al benessere chi è lasciato indietro da tecnologie e globalizzazione, ma modellare in tutt’altra direzione l’intero processo di sviluppo sociale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 14 luglio 2022

L’aggressione russa all’Ucraina, la pandemia, l’inflazione da shock di offerta, gli scricchiolii di recessione. Se fino a ieri potevamo parlare di tendenze già in atto, ora questo non basta più.

Sono tante le ragioni di allarme, di preoccupazione, di insicurezza, perché repentinamente il mondo è entrato in una fase completamente nuova, in cui nessun equilibrio rimane inalterato e tutto viene ridefinito.

Senza cedere al pessimismo, è necessario fare leva su quanto di buono è emerso durante la lunga pandemia – in termini di plurale riconoscimento al lavoro soprattutto di “cura”, di maggiore ricorso all’intervento pubblico, crescente solidarietà, più intensa cooperazione fra istituzioni e fra cittadini – evitando che vada disperso. Per questo bisogna ammettere l’insufficienza di soluzioni desuete e tradizionali (quale sarebbe la pur costosissima riduzione del cuneo fiscale reclamata da Confindustria) e operare un rovesciamento di prospettiva.

Tipico è il caso delle relazioni capitale/lavoro e del possibile rilancio in grande della democrazia economica.

È vero che, non ostante la criticità della situazione attuale, i profitti corrono verso picchi sempre più vertiginosi: negli Stati Uniti i margini netti hanno superato i loro precedenti vertici risalenti addirittura agli anni ’50, configurandosi, nella loro ricaduta sui prezzi. come una componente non marginale dell’incremento dell’inflazione.

Ma per l’appunto la partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa è cruciale sia per evitare l’appropriazione da parte dei profitti di tutti gli incrementi di produttività, sia per far avanzare la transizione ecologica, l’investimento in beni pubblici come la salute, l’istruzione, i beni culturali, la promozione della rigenerazione delle città, dei territori, dell’agricoltura, cogliendo la spinta in questo senso che si manifesta anche da parte di tanti gestori di fondi e imprenditori, delle cooperative, della società civile, dell’associazionismo.

Il carattere accentuatamente etico-politico dei sommovimenti in corso chiama in causa in modo non banale la dimensione dei valori: da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico. L’agire morale si presenta tout court come “un agire critico”.

Per questo appare tanto più significativa l’autointerrogazione del capitalismo sulla propria eticità.

Non si tratta solo di recuperare al benessere le persone lasciate in dietro dalle tecnologie e dalla globalizzazione, si tratta di modellare in tutt’altra direzione e con tutt’altri contenuti l’intero processo di sviluppo economico e sociale puntando sulla “piena e buona occupazione”, modellazione in cui l’Unione europea ha un ruolo primario e benefico da svolgere, se esce dalle sue incertezze e persegue la strada i cui embrioni rivoluzionari sono contenuti nel Next Generation Ue.

I rischi di “deglobalizzazione” (alimentanti illusioni di autarchia e di chiusura), che la guerra in Ucraina aggrava, mostrano che la globalizzazione del nostro recente passato – talora decantata fideisticamente anche a sinistra – non era immodificabile e nemmeno irreversibile.

Tuttavia, una globalizzazione “intelligente” ed “equa” è possibile, ma richiede almeno due condizioni.

Primo, bisogna ridimensionare il ruolo di politiche market-first (quale sarebbe la pericolosa ipotesi affacciata in queste settimane di basare il rilancio della globalizzazione su una “minore protezione e una maggiore concorrenza nei servizi”, la quale comporterebbe tagli alla spesa sociale e nuove privatizzazioni su scala globale in campi strategici come la sanità e affini).

Secondo, bisogna demistificare il mito che l’innovazione sia possibile solo se veicolata da spese in armi e in guerra a cui andrebbe, pertanto, finalizzato in via prioritaria il sostegno dell’intervento pubblico. Al contrario, la sfida è, anche per il capitalismo, identificare sorgenti di innovazione negli investimenti per la pace, orientando a questo fine un intervento pubblico così ridefinito e sostanziando in questi termini lo “Stato innovatore” di cui abbiamo bisogno. Questo sì che sarebbe un bello slogan elettorale: l’innovazione dalla pace e per la pace prima di tutto.

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