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«Per il cessate il fuoco servono azioni concrete, non parole di scontento»

«Per il cessate il fuoco servono azioni concrete, non parole di scontento»Medea Benjamin – Ap

Stati uniti Intervista a Medea Benjamin, cofondatrice dell'associazione pacifista Usa Code Pink

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 10 settembre 2024

Lo scorso maggio è stata arrestata insieme ad altre tre attiviste di Code Pink per aver interrotto una riunione del Comitato della Camera Usa per gli affari esteri in cui si discuteva della rimozione degli aiuti statunitensi all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi. Medea Benjamin, cofondatrice dell’associazione pacifista nata in risposta alla Guerra al terrore di George H. W. Bush – e impegnata da allora nella contestazione a tutte le guerre che coinvolgono direttamente e indirettamente gli Stati uniti -, è stata di recente a Roma, ospite della Casa internazionale delle donne, per discutere del conflitto a Gaza. Abbiamo parlato con lei del ruolo degli Usa rispetto alle politiche di Israele.

Pochi giorni fa Joe Biden ha dato una sorta di ultimatum a Benyamin Netanyahu. Cosa ne pensa?
Una cosa è dire che è arrabbiato con Netanyahu, e un’altra agire, dimostrare concretamente il suo disappunto. Se davvero vuole esercitare pressioni su Netanyahu, Biden deve dire che non verranno inviate armi a Israele fino al raggiungimento di un cessate il fuoco. Che gli Stati uniti non continueranno a sostenere il governo di Netanyahu in contesti come quelle delle Nazioni unite finché non ci sarà un cessate il fuoco. Azioni concrete, anziché parole di scontento.

In una recente intervista a The Intercept, lei sosteneva la necessità di fare pressioni sui membri del Congresso per raggiungere la pace a Gaza. Ma poco dopo, il Congresso ha accolto Netanyahu.
Per me è quasi surreale che Netanyahu sia stato invitato al Congresso, specialmente dai democratici. Penso al senatore Chuck Schumer, che settimane prima aveva detto che il primo ministro israeliano è il principale ostacolo al raggiungimento della pace. Credo che si trattasse di una trappola dei repubblicani, coloro che originariamente avevano invitato Netanyahu, e che i democratici fossero troppo spaventati per dire di no. Un centinaio di loro hanno boicottato l’incontro, non c’era neanche la vicepresidente Kamala Harris che però ha poi incontrato Netanyahu separatamente. Ma i parlamentari contrari alla sua presenza avrebbero potuto fare qualcosa di molto più significativo, come presentarsi e poi lasciare l’aula in massa, o restare e protestare. Invece hanno scelto la strada più semplice. E Netanyahu ha ricevuto decine di standing ovation, una disgustosa dimostrazione di sostegno bipartisan per un criminale di guerra.

Cosa pensa delle recenti campagne dell’Aipac contro alcuni membri della Squad?
Credo si possa leggere in due modi. Da un lato si può interpretare come una prova di forza dell’Aipac per dimostrare come chiunque al Congresso si esponga in favore della Palestina incorre nell’ira dell’Aipac e rischia la fine della propria carriera. D’altro canto, si può anche dire che l’Aipac sta perdendo il suo potere all’interno del Congresso perché non è automaticamente in grado di ottenere il consenso dei parlamentari. In alcuni casi, non ha avuto successo nel silenziare delle persone che esprimevano punti di vista pro-palestinesi. Penso che l’Aipac abbia ancora un grande potere, specialmente nell’incutere il timore di diventare un suo obiettivo. Ma con il passare degli anni, siamo stati testimoni di come stia anche perdendo questo potere, di come il sostegno alle politiche di Israele non è più automatico.

Alla Convention democratica di Chicago quello che potremmo ormai chiamare il movimento degli uncommitted è stato largamente ignorato.
I contestatori sono stati fatti entrare, alcuni erano delegati quindi non potevano essere lasciati fuori, ma non è s tato concesso loro di parlare dal palco, che era ciò che chiedevano. È stato un tragico errore da parte della convention democratica non dedicare un piccolo slot al movimento uncommitted. Hanno avuto spazio le famiglie degli ostaggi. Alcuni repubblicani, degli imprenditori. I dem continuavano a parlare di quanto è ampia la loro “tenda”, ma non grande abbastanza da dare spazio a una palestinese-americana che avrebbe tenuto un discorso molto, molto moderato: lo aveva anche inoltrato in anticipo perché venisse approvato. Era decisamente pro Harris, molto conciliatorio. Eppure. Credo che il problema principale dei democratici sia che non vogliono umanizzare i palestinesi e la loro causa.

Code Pink è nata con lawar on terror. Cosa pensa della recente decisione del segretario della Difesa di annullare gli accordi raggiunti dalla procura e alcuni degli autori dell’attentato dell’11 settembre, dopo decenni di detenzione a Guantanamo?
È una macchia terrificante sulla nazione statunitense che la prigione di Guantanamo ancora esista. Vi sono stati portati oltre 800 uomini, la maggioranza dei quali non aveva nulla a che fare con gli attentati dell’11 settembre, detenuti indefinitamente e senza che fosse loro garantito un giusto processo. Quelli che restano potrebbero tranquillamente venire trasferiti in prigioni federali Usa. Avrebbero potuto essere processati molti anni fa. Non tutti forse, perché alcune testimonianze non potrebbero essere ritenute valide dopo le torture di cui sono stati vittime. Ma è inconcepibile che dopo oltre vent’anni quella prigione sia ancora lì, in violazione della legge.

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