La parola d’ordine è sempre la stessa: risparmiare. Per evitare il ritorno in vigore quasi totale della riforma Fornero dal primo gennaio 2023, Giorgia Meloni e i suoi esperti previdenziali cercano compromessi al ribasso rispetto alle proposte dei partiti in campagna elettorale e alla piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil.

La carenza di risorse va però di pari passo con l’inutilità sociale delle nuove proposte che non tuteleranno i più bisognosi ma come Quota 100 e Quota 41 consentiranno solo a una parte minoritaria (e in qualche modo privilegiata rispetto ai milioni di lavoratori precari) di poter arrivare all’agognata pensione, allontanata pesantemente dal decreto SalvaItalia del governo Monti del dicembre 2011.

Le ipotesi sono ancora allo studio e dovranno passare fatalmente per le trattative sulla formazione del governo e i compromessi di maggioranza.
La più in auge fino a domenica era l’allargamento dell’attuale Opzione donna – anch’essa in scadenza a fine anno – anche agli uomini. La norma in realtà inventata dall’allora ministro del Lavoro leghista Roberto Maroni nell’ormai lontanissimo 2004 prevede che le lavoratrici possano andare in pensione anticipata con 58 anni di età e 35 di contributi con un ricalco totalmente contributivo dell’assegno. Rinunciando alla parte retributiva, le donne che sono andate anche quest’anno in pensione con Opzione donna hanno rinunciato a circa il 30 per cento dell’asssegno pensionistico vita natural durante.

L’altra idea è una nuova versione della “Quota 102” scelta dal governo Draghi quest’anno come ammortizzatore rispetto al flop “Quota 100” del governo Lega-M5s data dalla somma di 62 anni di età e 38 di contributi. Se Salvini continua a chiedere “Quota 41” – pensionamento a prescindere dall’età per chi ha raggiunto la ragguardevole somma di 41 anni di contributi – l’idea di Giorgia Meloni e suoi è quella di accoppiarvi una soglia d’età: si pensa almeno a 60 o 61 anni di età. La somma però sarebbe proprio Quota 102 – seppur con calcolo diverso: 64 anni di età e 38 di contributi – con un’imbarazzante similitudine.

Le risorse necessarie per queste due opzioni sarebbero molto più basse rispetto ai 5 miliardi l’anno stimati per Quota 41.
In entrambi i casi comunque nessuno potrebbe sostenere di aver modificato in modo strutturale la riforma Fornero: sarenne invece l’ormai solito aggiramento temporaneo e soprattutto assai parziale.

«Mandare in pensione le persone riducendogli l’assegno – commenta le illazioni il segretario della Cgil Maurizio Landini – non mi pare sia una grande strada percorribile. Il tema è quello di affrontare la complessità del sistema pensionistico», rilanciando la piattaforma confederale che propone la flessibilità in uscita dai 62 anni, senza alcun ricalcolo o taglio sull’assegno.
Abbastanza positivo invece il commento del presidente dell’Inps Pasquale Tridico, evidentemente a caccia di una improbabile riconferma dal nuovo governo di destra. Tridico ha parlato di «direzione giusta», anche se ha ricordato come ora scelgono di andare in pensione con Opzione donna circa il 25% delle lavoratrici con i requisiti: per gli uomini la percentuale di adesione potrebbe essere più bassa.

Se infatti si decidesse di uscire a 58 anni – attendendo l’anno di «finestra mobile» per poter avere il primo assegno di pensione – si perderebbe circa il 30% della pensione che si sarebbe maturata uscendo oltre sette anni dopo (con 42 anni e 10 mesi di contributi) perché i contributi versati sarebbero meno e andrebbero «spalmati» su molti più anni. In pratica l’assegno di pensione pasarebbe metà dell’ultimo stipendio. Una cifra che si potrebbero permettere solo i benestanti: con uno stipendio di uscita di 1.500 euro infatti si percepirebbe un assegno di pensione di 750 euro: senza altre rendite, si sarebbe in una situazione economica di povertà acclarata.