Patriarcato, femminismo e la testa del corteo
Pallade Atena di Gustav Klimt, 1898, al Wien Museum
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Patriarcato, femminismo e la testa del corteo

I testi Da Virginia Woolf a Susan Faludi: perché l'antifemminismo cresce
Pubblicato 11 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Viviamo ormai da decenni, fra alti e bassi, immerse in quella reazione al femminismo che Susan Faludi già descriveva e denunciava nel 1991, con il suo saggio Backlash. The undeclared war against women (Crown Publishing Group). Faludi, in quello che sarebbe stato tradotto in Italia con il titolo Contrattacco (Baldini &Castoldi, 1997), parlava di una vera e proprio guerra non dichiarata contro le donne, mossa da un sistema patriarcale che faceva leva sul discorso pubblico attraverso l’informazione, l’agenda politica, il cinema.

Ecco alcune delle domande delle inchieste giornalistiche dei tardi anni Ottanta cui fa riferimento Faludi: Il femminismo ha reso gli uomini sterili? Ha reso le donne più depresse? Ha fallito? Le donne laureate trovano marito? Oltre alle inchieste, anche ricerche universitarie e decine di film hollywoodiani hanno alimentato per anni questa narrazione su donne emancipate, sempre infelici e nevrotiche.

Nel 1992, un anno dopo la pubblicazione di Backlash, la rivista Time commissionò un sondaggio per capire quale fosse il rapporto delle americane con il movimento di liberazione delle donne, con la sua eredità materiale ma soprattutto culturale. Una delle domande poste alle intervistate fu: Lei si considera femminista? Ecco alcune risposte: «Io? Non sono mica matta»; «No, no, no!»; «Vadano all’inferno!». Secondo il quotidiano La Repubblica che pubblicò i risultati del sondaggio: «Sei donne americane su dieci, il 63% per l’esattezza, hanno risposto con un no. Solo il 29%, secondo i dati pubblicati, esprime ancora simpatia per un movimento nato quando negli Stati Uniti le hostess che osavano sposarsi venivano licenziate in tronco; e nelle offerte di lavoro dei quotidiani vigeva il sistema dell’apartheid, una colonna per gli uomini, una per le donne».

Che cosa era accaduto? Perché la parola femminismo, era passata in così pochi anni dal consenso al rifiuto in vasti settori della società americana, al punto da diventare materia d’inchiesta di Time? Tutta colpa del backlash, della reazione, del contraccolpo, scriveva Faludi tornando a percorrere, senza citarla, la strada intrapresa da Virginia Woolf tanti anni prima, nel 1929, in Una stanza tutta per sé, quando si chiedeva i motivi della reazione maschile contro ogni conquista femminile. Nel 1992 il problema sembrò che quella rabbia non riguardasse più soltanto l’universo maschile. Moltissime, erano le donne che si dichiaravano fermamente non femministe, raffigurando nel femminismo la causa di tutti i loro mali. La pervasività della cultura patriarcale aveva riportato molte questioni al punto di partenza.

Per noi, cresciute negli anni di Non è la Rai, sarebbe poi arrivato il celodurismo, il berlusconismo, Irene Pivetti presidente della Camera con i suoi discorsi sulla famiglia tradizionale, l’affaire Ruby, ecc. Un ventennio terribile di cui ancora oggi subiamo i danni.

Se è chiaro quello che accadde negli anni dell’ascesa del centrodestra, occorre ancora capire perché i femminismi siano stati ignorati anche dal centrosinistra. Ci sono volute Michela Murgia, il movimento NUDM e centinaia di donne ammazzate fino al femminicidio della giovane Giulia Cecchettin e la voce fermissima di sua sorella Elena, per riportarlo al centro del dibattito pubblico. Tutte storie che, in modi anche dolorosamente diversi, hanno reso evidente e pubblico quanto c’è ancora da fare, per reagire alla cultura reazionaria e conservatrice, ma anche per difenderci dagli attacchi di chi ci sta accanto e non riesce ad accogliere la radicale richiesta trasformativa del pensiero femminista.

Ancora adesso il backlash non sembra stemperarsi, dunque, anzi diventa sempre più feroce e evidente anche a sinistra. Come scrisse Nadia Fusini a proposito del pamphlet contro la guerra che Virginia Woolf pubblicò il 3 giugno 1938, Le tre ghinee: questo accade perché quando il femminismo non chiede di condividere il potere ma di metterlo radicalmente in discussione, disgusta i nemici e offende gli amici. Proprio quelli convinti di trattare le donne come eguali. «Pensavano, illusi, di essere immuni alla misoginia, mentre ne portavano i segni invisibili, incapaci com’erano di analizzare i costumi silenziosi, le tradizioni inarticolate della grande tradizione, del grande passato».

Per questo oggi, a quasi 100 anni da Una stanza tutta per sé e a 30 anni da Backlash, rileggere insieme questi due saggi offre un’indicazione di metodo sempre valida oltre che necessaria a chiunque sia interessato a capire i motivi per cui «femminista» resta per molti parola impronunciabile, da cui prendere le distanze e difendersi, malgrado si debbano ad esso le radici su cui può crescere una educazione di genere più aperta e meno violenta per tutte e per tutti.

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