Passant, anarchiste: lingua a colori della critica d’arte
Patricia Plaud-Dilhuit, "Gustave Geffroy 1855-1926. Un critique d’art, un homme d’engagement", Presses universitaires de Rennes Realismo, Impressionismo, Simbolismo fuori dagli -ismi: ogni artista è unico per il "journalist" adorato dal Goncourt senior. La sua colossale attività pubblicistica nella «Vie artistique»; il «Musée du soir» per operai e artigiani
Patricia Plaud-Dilhuit, "Gustave Geffroy 1855-1926. Un critique d’art, un homme d’engagement", Presses universitaires de Rennes Realismo, Impressionismo, Simbolismo fuori dagli -ismi: ogni artista è unico per il "journalist" adorato dal Goncourt senior. La sua colossale attività pubblicistica nella «Vie artistique»; il «Musée du soir» per operai e artigiani
Negli ultimi quarant’anni si sono infittiti gli studi dedicati alla critica d’arte in Francia nell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando quel genere letterario di impianto giornalistico conosce un’esplosione e una decisa professionalizzazione. Sviluppando le pionieristiche intuizioni di Lionello Venturi, le ricerche più recenti hanno puntato a mettere in evidenza il ruolo giocato dalle riviste o a ricostruire l’opera di singoli autori, portando così a pubblicazioni decisive, come quelle dedicate alle pagine d’arte del «Mercure de France», a Roger Marx o a Jean Dolent.
Mancava però uno studio su Gustave Geffroy (1855-1926), noto al grande pubblico per la sua Vie artistique (1892-1903), florilegio in otto tomi di una produzione giornalistica che fu veramente colossale.Viene ora a colmare questo vuoto la monografia di Patricia Plaud-Dilhuit, Gustave Geffroy 1855-1926 Un critique d’art, un homme d’engagement, recentemente uscita per le Presses universitaires de Rennes (pp. 286, euro 26,00). Bisogna ricordare però che già nel lontano 1957 Julien Cain, allora direttore della Bibliothèque nationale, aveva dedicato una mostra a Gustave Geffroy et l’art moderne. Cain aveva pagato con la deportazione a Buchenwald la sua opposizione al governo di Vichy; reintegrato nel suo ruolo dopo la Liberazione, non stupisce che avesse voluto omaggiare proprio Geffroy, critico d’arte engagé, attributo esplicitato nel titolo del volume di Plaud. La mostra del ’57 metteva in luce il doppio registro – visivo e letterario – su cui si mosse l’opera di Geffroy. La sua attività di narratore (tra tutti i titoli ricordiamo L’apprentie, che conobbe anche trasposizioni teatrali e persino cinematografiche) era nata all’ombra di Zola, se non della balzachiana Comédie humaine. Questa formazione ‘naturalista’ si percepisce anche nell’attività di critico d’arte, che prese le mosse dal Realismo (grande è la sua ammirazione per Courbet, «il porta parola della società»), si concentrò sugli Impressionisti, per aprirsi infine, anche se timidamente, ad alcune istanze del Simbolismo, come ben illustra Plaud-Dilhuit.
Geffroy può dirsi dunque un laboratorio perfetto per verificare la validità dell’affermazione di Jean-Paul Bouillon, secondo cui la critica d’arte sarebbe «un oggetto terzo, che si colloca al di qua e al di là dei campi letterario e artistico». Geffroy rivendica la propria imparzialità come una deontologia, autodefinendosi un «passant», un «anarchiste»; e tuttavia – sono parole sue – «la critica parte dall’osservazione, cioè dai fatti, e giunge all’immaginazione, vale a dire a uno stato mentale suscitato dal contatto di un essere con l’Universo»: Naturalismo, Baudelaire, Simbolismo, Geffroy assorbe e condensa le maggiori istanze culturali del suo tempo. La sua grandezza sta anche e soprattutto nel saperci restituire la poetica dei singoli maestri con una speciale écriture-artiste fatta di similitudini e sinestesie, una prosa che proprio Edmond de Goncourt ebbe a definire «la più ammirevole lingua pittorica, una lingua colorata al punto giusto, lingua poetica ma anche tecnica, capace di gettar luce sulle idee – insomma, il più bel francese moderno che ci sia».
Eppure Geffroy era un autodidatta. Determinante fu per lui l’intesa con Georges Clemenceau, capofila dei radicali e patron del giornale La Justice, a cui il critico collaborò attivamente dal 1880 al 1893, dando conto puntualmente del fermento artistico contemporaneo scandito dai Salons (sul sodalizio tra i due si veda anche la mostra Clemenceau – Gustave Geffroy. L’art, une passion partagée, curata dalla stessa Plaud nel 2021). Un’attività, quella di journaliste, che proseguirà nel tempo (collaborerà a L’Humanité di Jaurès sin dal 1904), lasciando poi il posto a imprese editoriali di più ampio respiro (come i 14 volumi dei Musées d’Europe) che lo imporranno definitivamente sulla scena parigina con funzioni di primissimo piano, dalla direzione della Manufacture des Gobelins (1908) alla presidenza dell’Académie Goncourt (1912). Quest’uomo apparentemente schivo seppe così tessere relazioni con i maggiori artisti e letterati del tempo, Edmond de Goncourt, Nadar, Auguste Rodin, Claude Monet, Stéphane Mallarmé, Frantz Jourdain, Élie Faure ed Eugène Carrière, l’amico che gli fece dono di un intenso ritratto (1891), di cui non sapremmo dire se siano più penetranti gli occhi o le mani.
In Geffroy critica d’arte e azione politica sono indissociabili. Nato nel 1855, l’anno del Padiglione del Realismo, Geffroy cresce nella fase tumultuosa che segue la disfatta di Sedan. Il critico ricorderà come da adolescente, nell’inverno della guerra franco-prussiana e nella primavera sanguinosa della Comune, i suoi passi lo portassero spesso al Père Lachaise; all’ombra del Mur des Fédérés si forma dunque la sua convinzione repubblicana e democratica, che si rinsalderà negli anni dell’affaire Dreyfus. L’enfermé, la sua appassionata biografia di Auguste Blanqui (1897), fu letta da intere generazioni (la mediterà a lungo anche Walter Benjamin) e contribuì a creare il mito dell’ «insorto»: «Lo spirito di rivolta del vecchio Blanqui, salubre come il salmastro, impregnerà la Storia».
Proprio Blanqui fu, in modo singolare, all’origine di uno degli incontri più importanti per il critico. Nel settembre 1886 Geffroy è in Bretagna, dove insegue il fantasma del rivoluzionario; a Belle-Île-en-Mer, nel cui penitenziario Blanqui era stato portato dopo la rivoluzione del 1848, soggiorna in quel periodo anche Monet. Si conoscono, e tra i due nasce un’amicizia folgorante, che catapulterà il critico nel gruppo degli Impressionisti. Gruppo non è in realtà il termine esatto, per lo meno non nella prospettiva critica di Geffroy. L’autore della Histoire de l’Impressionnisme (terzo tomo della Vie artistique, 1894), grande opera di sintesi, è tra i primi a comprendere l’eterogeneità di quel movimento.
L’idea di «personalità» è al cuore della critica di Geffroy, il quale recupera la nozione di tempérament, ma la accentua, esaltando l’originalità irriducibile del grande artista : «non vi sono scuole, ci sono solo gli individui». Basti guardare a Monet, di cui Geffroy darà una lettura che Plaud definisce «panteista»: la serie delle Ninfee è per lui una via alla «contemplazione buddista», lo stagno costellato di fiori bianchi gli appare come «lo specchio magico in cui fino ad ora non avevamo mai guardato»: tanto è l’incanto per quella serie, condiviso con Clemenceau, che Geffroy si fa promotore con quest’ultimo della grande impresa decorativa dell’Orangerie.
Il suo fiuto gli fa percepire anche la grandezza di Caillebotte, i cui «curiosi effetti di prospettiva scorciata annunciano un qualcosa che certo sarà sviluppato in futuro». Più complessa la relazione con Cézanne, di cui pure Geffroy intuisce la grandezza di capostipite: la storia travagliata del ritratto del critico, iniziato nel 1895, interrotto, ripreso, e infine mai compiuto, è il sintomo di una relazione piuttosto fredda, complicata anche dalle posizioni divergenti sull’affaire. Queste non inficiarono invece il rapporto con Rodin, che di Geffroy scolpì un intenso busto nel 1905, e di cui il critico difese strenuamente il Balzac: «A prima vista è un blocco, un masso, un monolite. Poco a poco distinguiamo un corpo informe che si dimena sotto questa scorza che riunisce e armonizza tutti i dettagli, che ne fa un amalgama, un tutto, l’immagine unificata della vita».
Con finezza Plaud ci mostra il volto bifronte di Geffroy, critico d’arte e «uomo impegnato», che rispondendo alle istanze dell’art social si spese per la democratizzazione della cultura e dell’arte, trovando appoggio nel tessuto solidarista, saldissimo nella Parigi a cavallo tra i due secoli. Così concepì il suo ‘Musée du soir’ come «un organismo completo, con scuola, biblioteca, conferenze professionali, storiche, filosofiche, insomma, una Casa del popolo, costruita dal popolo; un’impresa di emancipazione sociale, di rinnovamento, di civiltà». Un progetto di museo serale per gli operai e i piccoli artigiani, che aveva per postulato, ovviamente, la riduzione del massacrante orario di lavoro, battaglia di cui il critico si fece portabandiera. È in ragione di questa azione sociale che, alla sua morte, André Salmon ricorderà Geffroy come colui che «scendendo un giorno da Belleville a Parigi, creò dal nulla una critica d’arte di stampo popolare, la critica d’arte quotidiana».
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