Nel 2024 probabilmente si affronteranno per la presidenza degli Stati Uniti due ottuagenari (Biden 80 anni, Trump 77) mentre una maggioranza degli americani vorrebbe qualcun altro: in un sondaggio recente tre quarti degli intervistati auspicavano che fosse addirittura introdotto un limite massimo di età per candidarsi.

Lo scontento per i portabandiera dei due partiti era forte anche nel 1964, quando si affrontarono un senatore dell’Arizona che minacciava la guerra atomica, Barry Goldwater, e il presidente in carica, Lyndon Johnson, un vecchio marpione entrato nell’Ufficio ovale solo grazie alla morte di John Kennedy, nel novembre 1963 a Dallas. La guerra nel Vietnam stava crescendo d’intensità: il cosiddetto incidente del golfo del Tonchino, il pretesto per l’escalation, sarebbe avvenuto il 2 agosto 1964.

LA RISPOSTA politico-spettacolare a quella situazione venne dal più celebre dei trombettisti jazz, Dizzy Gillespie, che nel 1963 annunciò la sua candidatura alla presidenza. Quando gli fu chiesto perché si candidasse, Gillespie rispose: «Perché ne abbiamo bisogno» e questo divenne lo slogan della sua campagna pacifista. L’organizzazione della propaganda, degli incontri e dei comizi di Gillespie fu gestita dal critico jazz Ralph Gleason e dalla moglie.

I sostenitori del musicista fondarono la John Birks Society, chiamata così con riferimento al vero nome di Gillespie ma soprattutto come parodia della John Birch Society, l’organizzazione di estrema destra a cui era vicino Goldwater. Il primo passo fu inoltrare una petizione al segretario di Stato della California perché accettasse Gillespie come candidato indipendente alla presidenza. C’erano sostenitori in altri venticinque Stati.

TUTTO COMINCIÒ con un meeting a Chicago dove comparvero le spillette Dizzy Gillespie for President, in realtà confezionate anni prima dal suo agente per l’uscita di un nuovo disco. Tutti i proventi della vendita andavano al Congress on Racial Equality, alla Southern Christian Leadership Conference e a Martin Luther King.

Poi, al festival del jazz di Monterey, la performance di Gillespie fu registrata e immediatamente pubblicata in un album intitolato appunto Dizzy for President. L’inno della campagna fu una versione del suo celebre pezzo Salt Peanuts, trasformato in Vote Dizzy!. Il candidato repubblicano Goldwater prese sul serio la sfida, dichiarando che il suo jazzista preferito era il trombonista Turk Murphy (che peraltro nel 1962, con il democratico John Kennedy alla Casa Bianca, aveva lanciato un album intitolato Let the Good Times Roll, ovvero «Godiamoci i tempi buoni»).

GILLESPIE PROMISE che avrebbe rinominato la residenza presidenziale Blues House e che Duke Ellington sarebbe stato il suo segretario di Stato, Charles Mingus il suo segretario alla Pace e Mary Lou Williams la sua ambasciatrice in Vaticano. Ma il suo annuncio più spettacolare e provocatorio fu quello in cui dichiarò che Malcolm X sarebbe stato il suo ministro della Giustizia. Malcolm X era arrivato ad Harlem nel 1943 dove si dedicava allo spaccio di droga, al gioco d’azzardo, al racket e alle rapine.

Convocato dalla commissione di leva per essere arruolato e mandato a combattere i giapponesi finse di essere matto dicendo: «Voglio essere mandato nel Sud. Voglio organizzare i soldati negri… rubare i fucili e ammazzare i cafoni bianchi». Prudentemente, la commissione lo dichiarò «mentalmente non qualificato per il servizio militare».

NEL 1945 MALCOLM tornò a Boston, dove, insieme a quattro complici, commise una serie di furti con scasso e nel 1946 fu arrestato e iniziò a scontare una condanna da otto a dieci anni per furto e violazione di domicilio. Fu in prigione che si convertì all’Islam, abbandonò il vecchio nome Malcolm Little e iniziò a farsi chiamare Malcolm X. Il suo radicalismo gli valse la sorveglianza del Fbi e, probabilmente, anche l’assassinio da parte di rivali politici nel 1965. Insomma, era il candidato ideale per fare il ministro della Giustizia se Gillespie fosse diventato Presidente.

Un altro candidato perfetto per il ruolo sarebbe stato Miles Davis, che Gillespie proponeva come direttore della Cia, in quegli anni furiosamente impegnata nel tentativo di invadere Cuba o almeno di assassinare Fidel Castro.

ALLA FINE Gillespie si ritirò dalla corsa. Le elezioni furono vinte dal presidente in carica, il democratico Lyndon Johnson, con l’aiuto di Daisy, lo spot della margherita, creato dal mago della pubblicità politica Tony Schwartz.

Lo spot di 60″ iniziava con l’immagine di una bambina in un prato che sfogliava una margherita, contando lentamente «Uno, due, tre, quattro, cinque…». Poi l’immagine si concentrava sull’occhio della piccola e il sonoro diventava un conto alla rovescia per il lancio di un missile: «Cinque, quattro, tre, due, uno…». Sullo schermo appariva il fungo di un’esplosione nucleare e poi seguivano alcune parole di Johnson: «Viviamo in un mondo in cui o impareremo ad amarci l’un l’altro o moriremo».

LO SPOT non menzionava affatto Goldwater ma la gente sapeva che il senatore dell’Arizona era un «falco», che aveva detto più volte di essere disposto a iniziare una guerra nucleare se fosse stato necessario per fermare l’Unione Sovietica. La creazione di Tony Schwartz si limitava a far emergere la paura latente degli americani nell’era nucleare verso un uomo considerato dal grilletto facile.

DIZZY GILLESPIE aveva aperto la strada, anche se ci sarebbero voluti altri vent’anni perché comparisse sulla scena politica americana un altro candidato afroamericano alla presidenza, Jesse Jackson, che nel 1984 e nel 1968 sembrò a tratti vicino al traguardo della nomination democratica. L’apparato del partito gli preferì due sicuri perdenti come Walter Mondale e Michael Dukakis.

Così ci vollero vent’anni supplementari prima che un giovane senatore dell’Illinois con un nome bizzarro, Barack Hussein Obama, vincesse le primarie democratiche e poi le elezioni presidenziali. Era il 2008, quarantaquattro anni dopo la radicale, incredibile, avventura di Dizzy Gillespie.