«Coi grandi occhi trasparenti neri, per vedere nell’ombra, stai sotto la lampada e senti il tempo vuoto che ti ingombra». È questo l’inizio di una poesia di Carlo Levi, medico, pittore, scrittore arrestato a Torino nel 1934. Al confino a Gagliano scrisse Cristo si è formato a Eboli. E al confino di Ventotene Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi, scrisse il Manifesto per un’Europa libera e unita. I fascisti, nonostante la loro smania persecutrice, violenta, vendicatrice, non sono riusciti a togliere la voce, il pensiero critico, la voglia di resistenza a tutti i dissidenti imprigionati.

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Ed è incredibile che a più di novant’anni dall’entrata in vigore del codice Rocco, permeato di sotto-cultura fascista, ancora nei tribunali si applichino quelle norme. Abbiamo ancora in vita un codice penale scritto da un giurista illiberale, la cui retorica forbita non ha mai inteso occultare l’ideologia autoritaria del tempo.

Ricordava Pietro Calamandrei che «nell’inasprire il sistema penale e penitenziario, il ministro era ben d’accordo col suo padrone». La resistenza al fascismo in carcere non ha perso la capacità di leggere e svelare la crudeltà del sistema repressivo, le ipocrisie della retorica correzionalista, le assurdità della galera. Lo sguardo di figure come Vittorio Foa, Gaetano Salvemini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Adele Bei, Giulio Turchi, Ernesto Lussu, Carlo Levi, Mario Vinciguerra, Riccardo Bauer non è stato compromesso o violato da chi li avrebbe voluti in fila per due e con la faccia rivolta verso il pavimento.

«L’uomo in cella, dopo un certo tempo, non è un uomo. Resta il ricordo, sempre più schematico, di quando si era uomini… i giorni in carcere passano molto lentamente, i mesi e gli anni passano velocissimi. La coscienza dei tempi è forse immatura per una riforma nel senso di una abolizione totale delle pene detentive. Nessuna pena detentiva dovrebbe perciò superare i tre, e al massimo i cinque anni» (Vittorio Foa, condannato a 15 anni di carcere ma liberato nell’agosto del ’43).

«Credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale. Naturalmente è possibile migliorare il cibo, rendere più igieniche le celle e le camerate, dare più svaghi e più lavoro, e simili. Ma ciò non altera il dato essenziale, che consiste nel tenere degli uomini in gabbia, nella impossibilità di sviluppare una vita normale, privi quasi completamente di una tutela giuridica. Ma chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia». (Altiero Spinelli, condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere, ne scontò 10 più 5 di confino).

Riflessioni animate da uno spirito critico che non ritroveremo nel dibattito politico dei decenni successivi. Esse sono state raccolte da Pietro Calamandrei nel saggio Bisogna aver visto di cui insieme a Dario Ippolito ho curato la riedizione per Gli Asini. «La galera è galera” e vuol dire che deve essere così, come è sempre stata, con ingiustizie e cimici, tristezza e miseria. E perché “il carcere sia galera”, come dice una vecchia canzone di malavita, non bisogna far nulla che possa renderlo meno duro. Ma l’altro motto è consolatore: “La galera è fatta per i cristiani”… Già la galera è fatta per i cristiani, ma troppe volte questi ci stanno alla maniera delle bestie… Fra quei muri slabbrati e sudici si aggirano il direttore e le guardie e, se sono umani, dicono: “Abbiate pazienza, la galera è fatta per i cristiani”, se si irritano gridano “la galera è galera” ma non possono far niente. Le guardie dormono e mangiano in cameroni che non sono molto meglio e sembrano prigionieri con qualche scarso diritto di libera uscita». (Giancarlo Pajetta, condannato a 21 anni di carcere, ne ha espiati 12 e mezzo).

Un vero e proprio saggio di etnografia penitenziaria che accomuna lucidamente custodi e custoditi. «Il 18 novembre del 1933 venni arrestata a Roma. Dopo 8 mesi di carcere preventivo, il Tribunale speciale fascista con un atto che somigliava più ad una farsa che ad un processo mi condannò a 18 anni di reclusione. I continui interrogatori, le botte, gli strilli, gli insulti che durarono dieci giorni nei sotterranei della Questura di Roma, a nulla valsero; ciò che dissi al momento del mio arresto lo ripetei l’ultimo giorno dell’interrogatorio. A verbale fu trascritto “La sottoscritta non intende dare spiegazioni sul suo operato”. Dopo ciò venni condotta alle Mantellate e chiusa in una cella di segregazione dove rimasi cinque mesi senza notizie della mia famiglia». (Adele Bei, condannata a 18 anni di carcere, ne ha scontati 7 e mezzo).

Una storia di tortura, reato che è stato introdotto nel nostro codice penale nel 2017 e che la destra al governo vorrebbe cancellare.