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Panarari: «I guru del Sì a volte sbagliano. La campagna del No? La fa Renzi»

Panarari: «I guru del Sì a volte sbagliano. La campagna del No? La fa Renzi»«Se voti No» Un’immagine dello strepitoso video-parodia di «Se voti No», lo spot del Sì alla riforma costituzionale. Nei panni della nonnina del Sì c’è Zoro alias Diego Bianchi, autore e conduttore della trasmissione Gazebo (Raitre)

Intervista Il docente di comunicazione: gli esperti anglosassoni ci vedono come un paese americanizzato e trascurano il contesto. Il premier torna a personalizzare il referendum, ma non ha altra scelta

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 6 ottobre 2016

È la campagna più lunga della Repubblica, quella del referendum costituzionale, da maggio a dicembre, per Massimiliano Panarari, esperto di berlusconismo e della sua «egemonia sottoculturale», il titolo di un suo saggio. Per il professore di comunicazione politica all’Università Luiss di Roma (in un corso su «Campaigning e organizzazione del consenso») si tratta di «un caso all’americana di ’permanent campaigning’ sovraccaricato di elementi che poco hanno a che fare con il quesito. Perché per entrambi i competitor è la madre di tutte le battaglie».

panarari

Renzi sta davvero ’spersonalizzando’ il referendum?

Ha iniziato personalizzandolo, poi ha cercato di spersonalizzarlo. Ma l’operazione è difficile e comunque oggi è di nuovo tornato a incentrare su di sé la campagna. Non potrebbe fare altro: il tema binario, sì o no, porta con sé una dimensione contrappositiva e plebiscitaria. Specularmente il fronte degli avversari è ampio e diversificato e ha come unico elemento unificante e identificante il No al presidente del consiglio.

Ma chiedere un giudizio su di sé non era giudicato una trappola?

L’ordalia e il giudizio di dio può diventare un boomerang per chi sceglie di alzare i toni. Questo vale solo per le forze sistemiche, non vale per quelle antisistema e antiestablishment per le quali anzi è un elemento di sovraeccitazione dei propri elettori. Cosa che Grillo sa bene.

Ma il premier ormai ha imboccato questa strada: incita allo scontro fra modelli culturali: palude contro chi guarda avanti.

È un elemento irrinunciabile della sua leadership. Il «divide et impera» è un format della sua politica, dentro e fuori dal partito. In ogni caso non riuscirebbe a mobilitare il Sì con argomenti di merito. Deve presentare il Sì come un pezzo della sua visione ideologica.

La par condicio scatterà il 20 ottobre. Nel frattempo che succede nelle tv e sui media?

Le tv e i grandi media in questo momento sono campi di battaglia. Ma sono più pluralistici di quello che pensiamo. È sempre più frequente, anche in relazione ad alcuni segnali di crisi del renzismo, che nella grande stampa si mostri un’articolazione più plurale di quello che succedeva fino a qualche mese fa. Sarà interessante osservare anche come si comporterà Mediaset prima della par condicio per capire, nel lungo tramonto del berlusconismo, come evolve la forza politica su cui si sta scaricando nella maniera più problematica il tema referendario.

Che giudizio dà della campagna comunicativa di Renzi?

Molto agonistica, come nelle sue caratteristiche. Ha identificato se stesso con il sì ma questo ha fatto crescere il no e gli indecisi. Ha fatto una scelta di expertise e di professionalità esterne, come Jim Messina e altre figure della campagna social della seconda corsa di Obama. Ma dall’altra parte ha chiesto anche una mobilitazione al partito dimostrando una fiducia che altre volte non aveva avuto. Il terzo elemento è pavloviano: è la sua caratteristica di fighter, di lottatore anche sopra le righe. Ha sentito il campanello d’allarme e allora ha scelto i confronti in tv. Cerca di combattere in prima persona la sua battaglia ovunque.

Jim Messina lavorava contro la Brexit e non ha firmato solo campagne vincenti. Più in generale molti guru della comunicazione anglosassoni arruolati dai politici italiani hanno fallito.

Il campaigning elettorale non è una scelta esatta. In più la percezione del contesto è fondamentale. È vero che il processo di americanizzazione della politica, nel senso di mediatizzazione e personalizzazione, da noi è forte e irruento sin dagli anni 60, ma ci sono eccezioni di contesto legate alla permanenza delle nostre subculture politiche. In più in questo momento viviamo una fase di rivolta contro le élite e l’establishment da parte dei penalizzati della globalizzazione, comprese le classi medie impoverite. E un messaggio di campaigning efficace in una società a economia stabile o in crescita da noi non funziona, o può non funzionare.

Insomma meglio consulenti e buoi dei paesi tuoi?

Sì. I consulenti anglosassoni a volte non tengono presenti le specificità. Vedono l’Europa come un continente omogeneo e sempre più americano.

Che giudizio dà della campagna del No?

Quella del No è una non campagna. Non c’è un attore unitario, ci sono soggetti tra loro molto diversi e motivazioni profondamente diverse, a volte persino contrastanti. Il No al renzismo è un no resiliente, non cementa un campo. E questa è la principale polizza sulla vita politica del premier. La campagna del No è fatta in termini di negazione e di antitesi. E la sta facendo Renzi.

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