In piazza Hazafon Hachadash a Tel Aviv i negozi sono aperti, ma i clienti non ci sono. Commesse e commessi restano seduti, giocherellano con il telefono. «Non c’è molta voglia di fare spese, di comprare vestiti o uscire la sera», dice Gur, proprietario dell’Olive Cafè in via Bograshov, a qualche passo dal mare. «Tanti bar e ristoranti sono chiusi. È una combinazione di cose: la gente non è dell’umore di divertirsi e preferisce risparmiare per il futuro. Non sappiamo cosa accadrà. E poi mancano i lavoratori».

Partiti come riservisti dell’esercito, 350mila israeliani – molti studenti che avevano impieghi a ore come camerieri o commessi – mancano all’appello. Mancano anche i 250mila evacuati dal sud di Israele, da Sderot, Ashkelon, distribuiti nel resto del paese, da Tel Aviv a Eilat. E infine mancano i lavoratori palestinesi, di Gaza e Cisgiordania: mandavano avanti cantieri e campi coltivati, ma dal 7 ottobre Israele ha sospeso tutti i permessi di lavoro. Quelli di Gaza li ha spediti in Cisgiordania sugli autobus. «È tempo di raccolto ma non c’è chi raccoglie – dice Gur – Ho molti amici andati a sud come volontari nei campi, ma sono lenti, poco capaci».

QUI ALL’OLIVE CAFÈ, dice, lavoriamo al 50%, come durante il Covid: «All’epoca lo stato ci diede compensazioni per il ricavato perso. Al momento non è ancora arrivato nulla». La stessa cosa la dice Kobi, direttore dell’Hotel Cinema nella centralissima piazza Dizengoff, il primo sindaco di Tel Aviv: «Troppa burocrazia. E anche lì mancano tanti dipendenti, tra riservisti e donne che senza asili devono restare a casa con i figli».

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L’HOTEL CINEMA porta ancora i segni di quel che era fino al 2001, un cinema appunto, poster sui muri, vecchie macchine da presa nelle teche. Come altri dodici, tredici alberghi della città ha aperto le stanze agli sfollati dal sud. «Ne ospitiamo 250 – continua Kobi – All’inizio abbiamo raccolto donazioni online per coprire le spese. Ora lo stato ci riconosce una quota per ogni stanza, ma copre meno della metà del necessario. Andiamo avanti grazie ai volontari, aiutano in cucina con colazione, pranzo e cena, ma anche con le attività: pilates, basket, giochi per bambini». All’ingresso la bacheca espone orari e luoghi delle attività. C’è un medico di base per visite e prescrizioni.

VOLONTARI per coprire le carenze dello stato e lavoratori senza lavoro. Il governo ha previsto la cassa integrazione per chi ha l’impiego sospeso, le piccole imprese invece aspettano qualche aiuto. L’impressione è quella di una carenza strutturale, istituzioni che non hanno saputo reagire all’emergenza. Ieri il ministro delle finanze Smotrich ha annunciato “aiuti” ai riservisti: paga anticipata a inizio servizio e non a conclusione e cancellazione delle tasse sulle auto.

L’ECONOMIA subisce il contraccolpo, aggravato dalla fuga dei turisti, il rallentamento dell’agricoltura e dei cantieri privati della manodopera palestinese e asiatica e l’influsso di fondi all’esercito. «Difficile fare calcoli – ci spiega Momi Dahan, professore di economia alla Hebrew University – Dipenderà dalla durata della guerra e dall’eventuale allargamento. Di certo le conseguenze saranno peggiori di qualsiasi evento degli ultimi 15 anni. Durante la seconda Intifada: il Pil per tre anni calò tra il 5 e il 10%».

«La crisi è asimmetrica, colpisce con più forza determinati settori e aree geografiche – continua – I settori più danneggiati sono l’edilizia, l’agricoltura e il turismo, soprattutto per la mancanza di circa 100mila lavoratori palestinesi e degli stranieri. Le aree più colpite sono quelle al confine nord e sud». Il paese, aggiunge, veniva già da un periodo di instabilità dovuto alla tentata riforma della giustizia del governo Netanyahu e le proteste di piazza durate nove mesi: «Già prima avevamo un debito importante, oltre le previsioni».

E POI LE SPESE deviate altrove. Il professor Dahan è tra i trecento economisti che nei giorni scorsi hanno indirizzato una lettera al governo perché utilizzi i fondi (molto generosi) diretti alle colonie in Cisgiordania e alle comunità ultraortodosse per sostenere un’economia in sofferenza: «Il governo deve modificare le priorità di spesa del 2024: servono risorse per la sicurezza e la ricostruzione del sud. Parte di queste risorse vanno prese dai fondi per gli ultraortodossi e per le colonie in Cisgiordania. Parliamo di tantissimi soldi. Il rischio è di perdere credibilità di fronte ad agenzie come Moody’s e Fitch e agli investitori stranieri se non vedranno cambiamenti nel budget».

Secondo Dahan, non basteranno i finanziamenti promessi dall’amministrazione Biden, 14 miliardi di dollari. Serviranno scelte precise del governo. E soprattutto la fiducia interna che oggi sembra sbriciolarsi di fronte all’incompetenza del governo: «Quello che davvero peserà sarà la risposta degli israeliani, la loro percezione della sicurezza. Peserà di più di altri fattori, come le chiamate esterne al boicottaggio o eventuali sanzioni».