Politica

«Paesi sicuri», decreto sparito. E il governo aggira le camere

Il centro di Gjader in Albania foto AnsaIl centro di Gjader in Albania – Ansa

Immigrazione Nuovo strappo. Il testo per blindare le deportazioni ora è un emendamento

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 31 ottobre 2024

Il governo ha deciso ieri di non far convertire dal parlamento il decreto Paesi sicuri, ma di trasformarlo in un emendamento al decreto flussi il cui iter è più avanzato. L’annuncio è stato dato alle due riunioni delle conferenze dei capogruppo di Camera e Senato, dopo che nei giorni scorsi il decreto era stato presentato prima a Montecitorio per la sua conversione, e poi ritirato e ripresentato a palazzo Madama. Sarebbe sbagliato commentare in tono irridente la decisione di ieri del governo – che ha suscitato l’indignazione delle opposizioni – perché quella in gioco non è inettitudine, bensì spregiudicatezza.

Il nostro giornale ha raccontato ieri come il governo ha presentato il 23 ottobre il decreto Paesi sicuri alla Camera, solo perché in quei giorni non erano previste sedute del Senato, necessarie per la trasmissione del provvedimento; poi, con disinvoltura, lunedì sera il testo era stato ritirato da Montecitorio e ripresentato a palazzo Madama nella seduta di martedì. Era stato infatti promesso ai senatori della maggioranza di permettere l’esame da parte loro in prima lettura.

Improvvisamente ieri il ministro Luca Ciriani ha annunciato che il governo chiede che il decreto non venga esaminato e convertito nemmeno dal Senato, perché sarà trasformato in un emendamento al decreto flussi, che la commissione Affari costituzionali della Camera sta già esaminando (martedì sera sono giunti 300 emendamenti) e che sarà convertito prima. Immediata la reazione delle opposizioni, con i capigruppo di Pd e Avs, Francesco Boccia e Peppe De Cristofaro, che hanno parlato di «umiliazione del parlamento», mentre per Dario Parrini, Pd, si è trattato di una «violenza procedurale». Infatti con questo trucco a cui l’esecutivo è già ricorso, ha evidenziato Parrini, al parlamento non vengono concessi i 60 giorni di tempo per convertire il decreto previsti dalla Costituzione. Dunque, già esiste ormai di fatto un monocameralismo alternato per l’esame dei decreti; in più alcuni di questi hanno un esame accelerato e privo di controllo parlamentare.

Questo secondo aspetto è quello che spinge a parlare di spregiudicatezza istituzionale del governo. Quando l’esecutivo presenta un provvedimento in parlamento, la commissione di merito svolge delle audizioni che possono mettere in evidenza criticità; ed è questa fase imbarazzante che il governo ha deciso di evitare per il decreto Paesi sicuri, per il quale i giuristi chiamati in audizione avrebbero potuto sottolineato l’incongruenza con le norme e la giurisprudenza Europea, e quindi la sua sostanziale inutilità e inapplicabilità. La trasformazione in emendamento evita anche il vaglio da parte del Servizio studi di Montecitorio o di palazzo Madama, che per gli atti del governo prepara un dossier di lettura in cui si segnalano eventuali punti dubbi (con eleganza i funzionari esortano «si valuti l’opportunità di modificare…»). I dossier e le audizioni sono strumenti utili ai parlamentari per il controllo dei provvedimenti del governo, che con questo escamotage impedire l’attività di controllo del parlamento, dopo che quella legislativa gli è stata sottratta da tempo.

Ci sono poi i precedenti di altri decreti di dubbia legittimità, che ci fanno cogliere la disinvoltura istituzionale, specie dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Nel decreto Cutro, l’articolo che impedisce alle navi delle Ong di salvare i naufraghi, è stato riformulato cinque volte con altrettanti emendamenti del governo in Senato, per la difficoltà a giungere a un testo promulgabile dal Quirinale; il decreto rave party è stato riscritto tre volte, e altrettante il decreto Caivano. Trasformato in emendamento, il decreto Paesi sicuri potrà essere scritto e riscritto senza tante disinibizioni dai due ministeri, lasciando il parlamento davanti a un prendere o lasciare.

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