«Ci sono progressi. Vediamo la possibilità che venga raggiunto un accordo, ma non possiamo saperlo con certezza», ripete il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, commentando i negoziati ripresi da qualche giorno sull’accordo per un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi.

Difficile pesare l’ottimismo di Sullivan, tante volte abbiano ascoltato o letto in questi mesi le stesse parole. Però sappiamo che, mentre parla di tregua, Washington si premura di garantire a Israele le bombe più potenti per trasformare ciò che resta ancora in piedi di Gaza in macerie e polvere. L’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente, Brett McGurk, ha confermato al ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, l’invio «di importanti munizioni», «per alcune delle quali» la spedizione «avverrà nei prossimi giorni».

La notizia conferma quanto aveva riferito in precedenza Times of Israel. Un funzionario statunitense ha detto al giornale online che l’Amministrazione Biden ha rilasciato 1.700 bombe da 500 libbre, circa la metà della spedizione di bombe pesanti – include anche 1.800 bombe da 2.000 libbre – che aveva trattenuto ritenendo che potessero essere utilizzate in aree densamente popolate di Gaza, in particolare a Rafah.

Netanyahu a fine giugno ha reagito accusando gli Stati uniti di aver adottato una politica di sospensione delle spedizioni di armi a Israele, facendo infuriare l’Amministrazione Biden che negli ultimi nove mesi è stata essenziale per i rifornimenti delle bombe che hanno ucciso 38mila palestinesi, tra cui migliaia di bambini.

Poi il ministro della Difesa Yoav Gallant e altri funzionari israeliani sono riusciti ad appianare le divergenze. Gli Usa hanno anche riconosciuto che si erano creati alcuni «colli di bottiglia» burocratici nel sistema di trasferimento delle armi a Tel Aviv. Tutto risolto: Israele potrà continuare i suoi bombardamenti e tra poco sarà scongelata anche la consegna delle bombe da 2.000 libbre.

Sotto le macerie provocate dalle bombe americane sganciate su Shujaiya, un sobborgo orientale di Gaza city teatro per 15 giorni di un’ampia incursione israeliana, ieri i soccorritori hanno trovato una sessantina di corpi. «Quando le forze di occupazione israeliane si sono ritirate da Shujaiya, le nostre squadre con l’aiuto degli abitanti, hanno trovato circa sessanta martiri», ha comunicato il portavoce della Protezione civile di Gaza, Mahmoud Basal.

Mohammad Ali
L’esercito israeliano bombarda forte, come se la guerra stesse ricominciando. Moriremo, ma non ce ne andremo a sud

Sebbene sia un paesaggio lunare, gli abitanti tornano a ciò che resta delle loro case, portando con loro pochi generi di prima necessità e bottiglie d’acqua in cesti legati alle biciclette.  Persino il cimitero è stato spianato. Lungo la strada ci sono anche i resti di autoveicoli blindati israeliani distrutti e bruciati.

Gaza city non è diversa. Casa di oltre un quarto dei residenti della Striscia prima della guerra, il capoluogo è stato in gran parte raso al suolo alla fine del 2023, ma centinaia di migliaia di palestinesi sono tornati negli ultimi due-tre mesi nelle loro case in rovina. Nei giorni scorsi hanno ricevuto l’intimazione da Israele di andarsene di nuovo.

Molti non hanno alcuna intenzione di farlo. Preferiscono rischiare la morte all’ennesimo sfollamento verso accampamenti di tende senza servizi, con poca acqua pulita e dove non c’è più un metro di terra libero tante sono le persone che li occupano.

«L’occupazione (israeliana) bombarda come se la guerra stesse ricominciando. Moriremo ma non ce ne andremo a sud. Abbiamo tollerato la fame e le bombe per nove mesi e siamo pronti a morire come martiri qui», ha detto Mohammad Ali, 30 anni, a un’agenzia di stampa. Il ministero della Salute riferisce di aver ricevuto segnalazioni di persone intrappolate e di altre 30 uccise all’interno delle loro case nei quartieri di Tel Al Hawa, Sabra e Rimal e che i soccorritori non sono riusciti a raggiungerle. Invece ’esercito israeliano riferisce di nuovi «successi contro i terroristi», tra cui l’uccisione di due comandanti locali di Hamas, «dentro sedi dell’Unrwa», l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi.

Le indiscrezioni avvolgono i negoziati in corso a Doha e il Cairo per il cessate il fuoco. Le ultime, date dal Washington Post, dicono che Hamas e Israele avrebbero concordato nella seconda fase del possibile accordo sulla tregua su «un governo ad interim» nella Striscia di cui nessuno delle due parti in guerra avrà il controllo.

La sicurezza verrebbe garantita da una forza addestrata dagli Usa e appoggiata da alcuni paesi arabi, con l’impiego di un gruppo di circa 2.500 uomini dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Israele e Hamas, aggiunge il giornale americano, starebbero definendo gli ultimi dettagli dell’intesa.

Le perplessità sono parecchie.

Oltre il fumo delle indiscrezioni c’è la realtà delle dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu che non lasciano immaginare alcun accordo. Ieri sera, oltre ad accusare Hamas di presentare, a suo dire, «richieste inaccettabili», Netanyahu ha chiesto per Israele «il controllo del valico di Rafah» e del «Corridoio Filadelfia», la striscia di terra che corre lungo il confine tra l’Egitto e Gaza. In questo modo l’occupazione (permanente?) della Striscia da parte di Israele sarebbe totale.