L’altro ieri, quando il manifesto – il mio giornale – mi ha telefonato, stavo assistendo a un rito funebre con centinaia di persone, in un kibbutz a nord di Tel Aviv dove sono ospitati molti sopravvissuti del kibbutz Kfar Aza. Un funerale senza sapere ancora dove saranno sepolti i morti, come la direttrice amministrativa di quello che era stato il mio dipartimento al Sapir College, assassinata il 7 ottobre insieme a suo marito. Ero stato molte volte nella loro casa – lei era una attivista pacifista di sinistra – , sempre colpito dalla vicinanza di una recinzione insignificante, a pochi metri dal confine con la Striscia di Gaza, in una regione che durante il mandato britannico, fino al 1948, non era abitata da nessuno.

Quella mattina presto, il 7 ottobre, ricevo su WhatsApp il suo messaggio mentre già le sirene si sentono in tutto il paese ma non capisco ancora cosa stia succedendo: «Ci siamo svegliati per il rumore, i colpi alle finestre, le urla, adesso siamo chiusi nella stanza rifugio, non sappiamo se le urla siano di palestinesi o di soldati israeliani». C. – metto solo l’iniziale del suo nome per rispetto – e suo marito erano tornati a casa dopo mesi passati altrove, durante i lavori di ristrutturazione. Alle 14.45 le scrivo che l’esercito ha annunciato l’invio di altre truppe nel kibbutz. «Sì, ho ascoltato, che supplizio», mi risponde dopo un minuto. Poi, più nessun messaggio da loro due. Non so se sono stati uccisi con un’arma da fuoco, torturati, quali violenze hanno subito. Numerosi cadaveri sono stati mutilati, anche di bambini. Alcuni, più fortunati – forse? – sono diventati ostaggi.

Sì, l’orrore è cresciuto enormemente. Su queste pagine Judith Butler ha fatto importanti distinguo, dopo il suo articolo sulla London Review of Books. Amira Hass su Haaretz è molto drastica e scrive che la giustificazione degli orrori ricorda la posizione di certe organizzazioni comuniste quando si parlava dei sistemi di paura e repressione nel blocco sovietico. Mia figlia mi ha inviato un articolo scritto su Facebook dal professor Gadi Algazi; ho cercato di convincerlo durante la cerimonia funebre a inviarlo anche in inglese. Spiega bene cosa significa barbarie e non barbarie e come la lotta o la guerra contro la barbarie diventino anch’esse barbarie.

Chi crede di sapere che cosa accadrà domani non tiene conto di diverse incognite, non sufficientemente analizzate dai mezzi di comunicazione. La presenza statunitense e il suo appoggio a Israele ha caratteristiche diverse da quelle abituali dell’agire imperialista. Gli Stati uniti sono innanzitutto interessati a evitare una conflagrazione nell’intero Medio Oriente e ritengono che l’operazione di terra a Gaza da parte dell’esercito israeliano farebbe arrivare a livelli molto pericolosi la tensione in tutta la regione.

Mettere il freno a Israele ha fra l’altro la funzione di evitare che Hezbollah entri nel conflitto. Sarebbe un inferno, con effetti terribili non solo in Israele: porterebbe alla distruzione del Libano. Ed evitare questo coinvolgimento sarebbe un risultato anche per l’Iran, che di fatto vorrebbe tornare ai negoziati con gli Stati uniti e ritiene che il passo compiuto appoggiando Hamas non abbia prodotto i frutti sperati. La posizione dell’Iran è correlata a quella Usa e influenza le valutazioni dei diversi attori, circa i passi da compiere.

Egitto e Giordania vedono come una minaccia reale il possibile afflusso in massa di rifugiati palestinesi provenienti da Gaza. Gli Stati uniti vedono in questi due paesi e nell’Arabia saudita attori importanti in un nuovo Medio Oriente.

In Israele, non sappiamo bene quale sia la divisione fra la élite politica e quella militare. La vera guerra interna nella coalizione governativa è più che complicata ed è legata non solo ai punti di vista a proposito del conflitto israelo-palestinese o della pace ma anche alla lotta per la sopravvivenza politica di un gruppo di dirigenti corrotti, guidati in primo luogo dai propri interessi personali.

Presso i responsabili militari c’è il desiderio di evitare i possibili effetti di una crisi che li ha rivelati impreparati e deboli, nel contesto di un gioco molto pericoloso suscettibile di costare la vita a molti palestinesi e a non pochi soldati israeliani.

Chi ha avuto reazioni di umana compassione di fronte al massacro compiuto da Hamas deve allora riflettere, mobilitarsi, appoggiare tutti i mezzi possibili per evitare un ulteriore allargamento dell’offensiva israeliana che già tante vittime civili ha fatto a Gaza. La guerra provocherà ancora più vittime palestinesi e israeliane e allontanerà ulteriormente la possibilità di arrivare ad un accordo di pace.